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21.12.2024

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Autorità ed educazione
31 Gennaio 2014

Autorità ed educazione

 

 

Due discorsi del Santo Padre su temi difficili: gerarchia, autorità, educazione. Concetti spesso accolti con difficoltà, a volte con timore. Un invito a non avere paura delle parole. E a scoprire la bellezza del disegno di Dio sull’uomo

 

Per educare bisogna essere autorevoli, cioè credibili: non è sufficiente infatti avere il potere per essere capaci di trasmettere.
D’altra parte, per essere educati bisogna accogliere come provvidenziali le autorità che dalla famiglia alla scuola, dalla società alla Chiesa, ci aiutano a trovare e seguire la verità e il bene.

Gerarchia e comunione
Papa Benedetto XVI ha legato questi principi in due discorsi del 26 e del 27 maggio.
Nel primo, nel corso dell’Udienza generale, ha ripetuto come la Chiesa intende il principio di autorità e come vuole esercitarlo.
Ha così affrontato il concetto di gerarchia e ha ricordato come negli ultimi decenni l’opinione pubblica lo abbia spesso contrapposto a quello di pastorale: è pastorale ciò che è “comunione”, ciò che è flessibile e vitale, e si oppone a quello che invece è gerarchico, qualcosa di legato al dominio e così non corrispondente al vero senso della Chiesa.
Ma le cose non stanno così, ha spiegato Benedetto XVI: gerarchia significa «sacra origine, cioè: questa autorità non viene dall’uomo stesso, ma ha origine nel sacro, nel Sacramento».
Questa verità vale certamente nella Chiesa, ma anche nella società civile. Essa ci chiede di guardare a chi è rivestito di autorità un po’ al di là della sua umanità e a vedere in lui appunto la funzione sacra, il mandato che ha ricevuto da Dio e gli consente così di esercitare l’autorità per il bene di tutti. Il Papa, i vescovi, i parroci, ma anche tutte le autorità civili, politiche e familiari, ricevono da Dio il mandato di esercitare l’autorità nei confronti di altri.
La rivoluzione culturale avvenuta a partire dal 1968 ha minato questa concezione dell’autorità e ha trasformato rapporti umani eccessivamente autoritari (nel senso che non vi era la sana abitudine di educare spiegando e coinvolgendo) in rapporti umani che non vedevano in chi esercitava l’autorità l’inviato di Dio (a prescindere dalle sue qualità e intenzioni umane), ma un peso necessario, oppure in qualcosa di temporaneo che il progresso avrebbe eliminato.
Questa profonda mutazione è avvenuta nella famiglia e nella scuola, incidendo sui rapporti educativi, ma è entrata anche nella Chiesa stessa, dove ha prodotto una costante contestazione interna che ha avvelenato soprattutto gli ultimi dieci anni del pontificato di Paolo VI (1968-1978). Il risultato più grave di tale contestazione consiste nel fatto che la cultura della maggioranza dei fedeli e degli stessi sacerdoti ha cessato di guardare al Magistero come all’orientamento principale della propria vita: molti, infatti, credono di essere obbedienti, ma in verità non conoscono e non si sforzano di conoscere il Magistero costante del Pontefice. Ma questa contestazione non è soltanto “a sinistra”, cioè a partire dal rifiuto dell’enciclica Humanae vitae appunto del 1968, ma coinvolge anche la reazione cosiddetta tradizionalista contro il Concilio Vaticano II. Quest’ultimo, infatti, non va usato come momento di rottura rispetto alla Chiesa precedente, ma non va neppure “emarginato”, come fanno in molti, con la scusa di essere stato un concilio pastorale, quasi che la grande maggioranza dei testi di Magistero non avessero appunto lo scopo “pastorale” (e non dogmatico) di indicare ai fedeli la strada migliore da seguire circa il modo di evangelizzare nel mondo contemporaneo. Ci sono infatti due modi di “rompere” l’unità della Chiesa, uno che ritiene il futuro sempre e necessariamente migliore del presente e del passato, ma anche un altro che esalta il passato della Chiesa come qualcosa di tanto vicino alla perfezione da essere immutabile. «Comunione e gerarchia non sono contrarie l’una all’altra» scrive Benedetto XVI, «ma si condizionano» e il Pastore nella Chiesa ha il compito di guidare (gerarchia) con spirito di servizio (comunione).
Ovviamente questa mentalità antiautoritaria, che caratterizza il modo di pensare di persone non solo progressiste, ma anche assolutamente contrarie al progressismo, è penetrata anche nei confronti della società e dello Stato. Capita così di vedere cattolici privi di qualsiasi senso delle istituzioni, ma anche incapaci di percepire i mutamenti storici, non necessariamente e non tutti impregnati di relativismo. È in questa situazione di confusione, che capita anche di ascoltare l’apologia del Concilio di Trento e la denigrazione (o la messa in soffitta) del Vaticano II, quasi non fosse la stessa Chiesa ad avere promulgato i rispettivi documenti.

Educare per non scomparire
Per superare queste difficoltà nel fare proprio uno spirito autenticamente cattolico, bisogna educare. Parlando ai vescovi italiani il 27 maggio (che hanno scelto l’educazione come tema portante dei prossimi dieci anni), il Pontefice ha indicato alcuni dei principali ostacoli alla pratica educativa nella Chiesa e in generale nella società contemporanea.
Intanto, esiste «un falso concetto di autonomia dell’uomo», secondo il quale ognuno dovrebbe svilupparsi da solo, senza rapporti con altri, mentre l’esperienza e la ragione ci dicono il contrario, cioè che ogni persona «diventa se stessa solo dall’altro.
L’“io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la comunione diacronica e sincronica», e quindi «la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione».
Infatti, senza un’autorità che educa, un genitore, un maestro, un “capo”, sia nella vita civile che in quella ecclesiale, non si può crescere ordinariamente, se non eccezionalmente.
L’altro motivo dell’emergenza educativa,secondo Benedetto XVI, si trova «nello scetticismo e nel relativismo», ossia nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano, la natura e la rivelazione. La loro esclusione porta al rifiuto anche dell’esperienza storica e così la persona non ha più possibilità alcuna di scoprire la realtà, perché le viene negata la possibilità di «riconoscere che il libro della creazione, nel quale Dio ci dà gli orientamenti fondamentali, è decifrato nella Rivelazione, è applicato e fatto proprio nella storia culturale e religiosa, non senza errori, ma in una maniera sostanzialmente valida, sempre di nuovo da sviluppare e da purificare».
In questa brevissima esposizione troviamo indicate le difficoltà di educare, oggi così presenti nelle comunità cristiane e nelle famiglie.
La cultura dominante ha escluso la natura come fonte di orientamento e vediamo nell’ideologia del gender l’ultima e più radicale espressione di questa negazione della realtà, quella della differenza fra il maschio e la femmina. Se Dio non parla attraverso la natura, risulta difficile credere che si comunichi agli uomini attraverso la Rivelazione o la storia: per quale motivo un Dio che non ha parlato creando dovrebbe comunicare successivamente incarnandosi o attraverso una sua chiesa, nella storia?
Tuttavia non bisogna arrendersi, ha detto il Papa, perché «i giovani portano una sete nel loro cuore» che soltanto la verità e l’amore possono placare. Due sono le strade “classiche” che portano a riconoscere l’esistenza e la signoria di Dio, le strade dell’intelligenza e del cuore, ossia le strade della verità e dell’amore, alle quali possiamo aggiungere la via della coscienza, cioè di quella presenza interiore di Dio che suscita nel nostro cuore la consapevolezza di fare o di non fare la Sua volontà.

L’emergenza educativa
In conclusione, possiamo pensare che la risposta all’emergenza educativa sia essenziale per la nuova evangelizzazione del mondo post-cristiano.
Dove? Nei luoghi classici anzitutto, nella famiglia, nella scuola e nella parrocchia come ricorda il Papa concludendo il suo discorso ai vescovi d’Italia, ma anche ovunque lo Spirito Santo susciti una passione educativa, un «cortile dei gentili» per usare un’altra espressione del Papa, dove i postcristiani di oggi, come i pagani di due millenni fa, possano sentire o risentire «l’annuncio del Dio amico dell’uomo, che in Gesù si è fatto prossimo a ciascuno».
Quello che importa, al di là del luogo, è la «qualità della testimonianza, via privilegiata della missione ecclesiale». Senza nascondere le ferite inferte nel suo corpo dai peccati, anche gravissimi, di ciascuno di noi, la Chiesa sa che se non sapremo suscitare «relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia», non riusciremo ad aiutare nessuno a riscoprire o a scoprire per la prima volta la verità che salva e che lo può rendere felice per l’eternità.

BIBLIOGRAFIA

 

L’Udienza del Papa di mercoledì 26 maggio sul tema del munus regendi, cioè sulla missione di governo del sacerdote, e il discorso alla Assemblea dei vescovi italiani del giorno successivo, dove ha riproposto alcune considerazioni in tema di emergenza educativa, si trovano sul sito della Santa Sede www.vatican.va

 

IL TIMONE N. 95 – ANNO XII – Luglio/Agosto 2010 – pag. 58 – 59

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