NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO – ANNO B – SOLENNITÀ
Siamo di nuovo nel libro di Daniele, ma questa volta non al capitolo dodicesimo, letto domenica scorsa, bensì al capitolo sette, dal quale abbiamo letto solo due pericopi. Domenica scorsa abbiamo riflettuto sullo sconvolgimento provocato dall’evento unico che rivelerà la gloria di Dio a tutta l’umanità. Alcuni ne trarranno un grande beneficio, ossia regnare con Dio nella vita eterna. Altri, invece, verranno allontanati “alla vergogna e all’infamia eterna.”
Di tutto questo non sappiamo né quanti saranno premiati, né quanti condannati, né quando tutto ciò accadrà. Tuttavia, Daniele apre uno squarcio sugli eventi futuri e vede in “visione” ciò che Dio gli rivela: “uno simile a un figlio d’uomo.”
La figura del “figlio dell’uomo” è usata principalmente, nei libri profetici, per sottolineare la fragilità e la condizione umana, come in Ezechiele. L’espressione si riferisce spesso a un profeta specifico, evidenziandone l’umanità di fronte alla grandezza e alla potenza di Dio (Ez 2, 1). Qui, il termine non ha connotazioni messianiche, ma serve piuttosto a distinguere l’uomo dal divino.
Nel libro di Daniele, tuttavia, il “figlio dell’uomo” assume una connotazione più complessa e messianica. Infatti, in questo brano, appare una visione in cui un “figlio dell’uomo” viene con le nubi del cielo e riceve un regno eterno da Dio. Questo “figlio dell’uomo” sembra rappresentare una figura messianica e gloriosa, che gode di un’autorità universale, anticipando la venuta di un salvatore che instaurerà il regno di Dio.
Nel Nuovo Testamento, il titolo “Figlio dell’uomo” è uno dei principali termini che Gesù utilizza per riferirsi a sé stesso. Qui, la figura si arricchisce di significati messianici e apocalittici. Gesù usa il termine per esprimere la sua missione di sofferenza, morte e risurrezione, ma anche per riferirsi alla sua seconda venuta in gloria. Nei Vangeli, il “Figlio dell’uomo” diventa un titolo con un doppio significato: da un lato, indica l’identità umana di Gesù e la sua solidarietà con l’umanità; dall’altro, sottolinea la sua natura divina e la sua missione redentrice.
Nel brano dell’Apocalisse che abbiamo ascoltato, l’autore ispirato è ora in grado di identificare chi sia il “Figlio dell’uomo” e si fa garante della sua identità. Il “Figlio dell’uomo” tante volte annunciato nell’Antico Testamento (107 volte) ora ha un volto: è Gesù Cristo, che si è fatto crocifiggere affinché venisse svelato questo mistero eterno: “Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve. Ed egli la manifestò, inviandola per mezzo del suo angelo al suo servo Giovanni, il quale attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto.”
Usando questa chiave di lettura, diventano più significative le domande di Pilato e le risposte che Gesù gli dà. In un confronto diretto, Pilato vuole comprendere la posizione di Gesù, ma gli sfuggono le sfumature linguistiche e teologiche del suo interlocutore. Alla domanda sulla sua regalità, Gesù non nega di essere re, ma non vuole legare la sua regalità a questo mondo, bensì cerca un significato più profondo: quello della verità.
Quid est veritas? Qual è la verità nel mondo in cui viviamo? Qual è la verità nel nostro breve tratto di storia umana? E, soprattutto, qual è la verità su di me? Quella verità che è in grado di dirmi onestamente chi sono, ma anche di stendere un velo pietoso sulle mie meschinità.
Chi ha vissuto una prima conversione sa bene che quel “potere, gloria e regno” che vengono dati dal Vegliardo sono un potere, una gloria e un regno che vivono nella profondità più intima dei cuori di coloro che, nonostante le loro mancanze, difficoltà, ferite, affanni e paure, vogliono seguire il “Figlio dell’uomo” affinché sia il re del loro regno.
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