XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO B
Il libro di Daniele è uno dei testi dell’Antico Testamento in cui possiamo leggere la storia del profeta Daniele, vissuto in esilio a Babilonia sotto il regno di Nabucodonosor e dei successivi re babilonesi. Questo libro è celebre per i racconti di coraggio e fede, come l’episodio della fossa dei leoni, e per le visioni apocalittiche e profetiche. Nei capitoli dal settimo al dodicesimo, infatti, Daniele riceve una serie di visioni simboliche e profezie destinate a rivelare eventi futuri e il piano divino per la storia del mondo.
Nel capitolo dodicesimo si parla della risurrezione dei morti e del giudizio finale: coloro che rimarranno fedeli a Dio saranno ricompensati con la vita eterna, mentre i malvagi verranno puniti. La liturgia della Chiesa affianca a questo brano il Vangelo di Marco, capitolo 13, dove Gesù inizia un dialogo con i discepoli sulla maestosità del Tempio.
Per un ebreo dei tempi di Gesù, il Tempio era un’opera di grandiosa ingegneria, simile a come oggi ci appare il Burj Khalifa. Era inoltre il segno visibile della presenza di Dio in mezzo al Suo popolo, e l’idea che potesse essere distrutto era impensabile.
Al contrario, Gesù educa i discepoli a non dare troppa importanza alla stabilità apparente di edifici, filosofie, economie, gruppi sociali o movimenti politici di ogni genere. Oggi come allora, Egli ci ricorda che tutto ciò che ci circonda, inclusi noi stessi, avrà inevitabilmente una fine.
Per questo, il Signore ci esorta alla vigilanza quotidiana, ricordandoci che la nostra esistenza è limitata e che dobbiamo affidarci al progetto di Dio. Gesù non intende creare ansia con le sue parole, come se non ne avessimo già abbastanza; il suo è, invece, un discorso di speranza, anche se a prima vista potrebbe non sembrare tale.
Il futuro di cui ci parla è indeterminato riguardo il momento esatto, ma è certo che si verificherà: un giorno Egli tornerà, non più nel mistero, ma nella gloria, e trionferà completando il Suo disegno di salvezza per l’umanità. Dio entrerà nella storia in modo definitivo e questa, così come la conosciamo, giungerà alla fine. Le immagini cosmiche, che possono suscitare timore, non devono essere prese alla lettera ma sottolineano la grandiosità dell’evento che si verificherà. La Bibbia fa spesso uso di tali espressioni (cfr. Is 13, 10; Gioele 2, 10; Sal 114, 7) per descrivere eventi al limite delle nostre capacità di comprensione.
Queste visioni profetiche cercano di rappresentare il giudizio divino, dove alcuni saranno condannati per essersi volontariamente esclusi dal progetto salvifico di Dio, che invece era destinato anche a loro. Nel testo di Marco, pur senza escludere la condanna, si sottolinea il valore salvifico dell’evento. Gesù desidera dare speranza ai discepoli, preparando loro al primo grande trauma: la sua crocifissione e morte. Tuttavia, nemmeno questi eventi saranno gli ultimi, anche se a loro potevano sembrare conclusivi.
Gesù non risponde alla domanda sul “quando”, perché al vero discepolo non interessa sapere il giorno o l’ora. Il discepolo si affida alla bontà del Maestro, il quale non svela il momento esatto perché la fede si vive nel mistero. Come Figlio eterno, Gesù conosce il “quando”, ma non è chiamato a rivelarlo (cfr. Teofilatto) poiché non è giunto il tempo per svelare il mistero di quell’evento. Egli, a differenza degli antichi profeti, non necessita di visioni o estasi per conoscere i piani divini (cfr. Daniele 7, 1), essendo egli stesso Dio.
Eppure, condividendo con noi la profezia, ci istituisce profeti com’è Lui. Infatti, siamo coscienti della fine delle potenze terrene, oggi apparentemente stabili come il Tempio di Gerusalemme. Magari alcune di queste potenze crolleranno prima degli eventi finali, quando Dio lo vorrà. Al contrario, molti vivono come se queste realtà non dovessero mai finire e come se la morte riguardasse solo gli altri. Questo modo di vivere li porta in uno stato di continua agitazione e ansia, preoccupandosi di aspetti che non possono e non potranno mai gestire completamente.
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