XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO B
Nel secondo discorso di Mosè, nel libro del Deuteronomio, si parla dell’alleanza sull’Horeb, ovvero l’invito che il Signore fa ad Israele di seguire le sue leggi e i suoi comandamenti. Sono molto interessanti, secondo me, due punti: 1. le leggi messe in pratica sono espressione della fedeltà di Israele nei confronti di Dio e tale fedeltà deve essere trasmessa ai figli; 2. viene spiegato che la fedeltà è fonte della felicità dell’uomo e per questo, qualche versetto dopo, saranno elencati i pericoli che possono far dimenticare tale alleanza.
Lo Shema Yisrael del deuteronomio non si presenta tanto come un imperativo che vuole schiacciare, annientare, annichilire l’israelita, ma sottolinea la necessità di una disposizione continua del cuore affinché la legge non venga dimenticata e l’uomo possa ottenere il premio della felicità. Tale premio, non si limita solamente a colui il quale rimane in ascolto, ma si estende a tutta la comunità e, ancora di più, a tutto il creato. L’atteggiamento del fedele israelita è possibile solamente conservando nel cuore l’amore che Dio ha per lui.
Nella storia di Israele viene evidenziato come l’uomo sia infedele. Gli stessi sacerdoti, santi poiché Dio li desidera santi, si mostravano infedeli nella pratica. Nell’umanità soggiace una malvagità atavica che non le permette di oltrepassarsi. Una malvagità che l’uomo tenta di arginare mediante imposizioni sociali e personali.
Ma, alla lunga, l’unico che si dimostra fedele all’alleanza stabilita risulta Dio, il quale, come una roccia di granito, rimane lì fermo e stabile nel dimostrare che la fedeltà è possibile ed è l’unica via di felicità per l’uomo. La dimostrazione ultima di tale fedeltà Dio la mostra nel suo unigenito Gesù Cristo di Nazareth, il quale rimane stabilmente appeso alla Croce affinché tutti possano avere la dimostrazione pratica di tale fedeltà.
Lo scriba come ogni buon ebreo riconosce la necessità di tale fedeltà e ricerca un principio unificante che riesca a racchiudere i 613 precetti che nel corso del tempo i maestri ebrei avevano disposto. Il principio alla fedeltà all’amore di Dio l’abbiamo già letto in Deuteronomio. Ma gli ebrei conoscevano anche il principio dell’amore per il prossimo. Il rabbino Hillel, vissuto alcuni decenni prima di Gesù, affermava che non fare al prossimo tutto ciò che è odio a te è il sunto della legge (Shab. 31a). Questa concezione è una costante della tradizione giudaica.
Gesù evidenza come il più alto dei comandamenti, lo shema Yisrael, non può essere separato dall’amore per il prossimo, riportando le parole del libro del Levitico (19, 18). I due comandamenti vengono fusi in un’unica realtà che forma una univocità che possiamo immaginare come due facce della stessa medaglia. Non due momenti separati fra loro ma due spinte relazionali. Ma lo scriba non è ancora in grado di vivere il comandamento secondo lo shema Yisrael. Sappiamo bene che il regno di Dio è lo stesso Gesù Cristo che è lì, di fronte allo scriba e sta parlando con lui. Quindi possiamo iniziare a escludere che Gesù parli di una lontananza fisica. Allora si deve intendere una lontananza spirituale, intima, una lontananza che riguarda il cuore, ovvero lo shema.
Secondo sant’Agostino, lo scriba, come tanti prima di lui, forse era venuto per tentare il Signore; quindi, il suo atteggiamento non è realmente di ascolto. Ma potrebbe avere riconosciuto in Cristo un maestro come tanti altri, da mettere alla prova per saggiarne la conoscenza. Per questo lo scriba non è vicino ma semplicemente non è lontano, è imperfetto così come lo era il giovane ricco (Mc 10, 17-31).
Nel mondo di oggi molti battezzati vivono come lo scriba o il giovane ricco e, a volte, anche peggio. Certo riconoscono in Gesù una figura importante, che possa insegnare qualcosa di buono. Ne riconoscono le qualità umane e alcuni suoi insegnamenti.
Ma si fermano in superficie, poiché non stanno in ascolto e per questo si trovano lontani dal suo regno.
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