Un cold case italiano, quello del presunto suicidio di Denis Bergamini, tornato alla ribalta di recente, per gli sviluppi del processo che ha come imputata l’allora quasi fidanzata Isabella Internò. L’accusa per lei, ora cinquantacinquenne, è di omicidio volontario in concorso con ignoti. Sulla Gazzetta del 21 settembre la ricostruzione della vicenda: «Sono passati quasi 35 anni da quel piovoso 18 novembre 1989, quando l’allora ventisettenne centrocampista del Cosenza fu trovato cadavere vicino a un camion sulla statale 106, nei pressi di Roseto Capo Spulico. Ieri (il 21 settembre scorso, ndr) la Procura di Castrovillari ha chiuso il cerchio nel processo, chiedendo 23 anni di carcere per l’ex fidanzata». La sentenza della Corte d’Assise di Cosenza gliene ha comminati 16.
La donna è dunque ritenuta responsabile e mandante dell’omicidio di Denis Bergamini, con l’aggravante della premeditazione e dei futili e abietti motivi. L’imputata ha rilasciato una dichiarazione spontanea prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio: «Voglio solo dire che sono innocente e non ho commesso niente. Lo giuro davanti a Dio. Dio è l’unico testimone che non posso avere al mio fianco». Per quanto non dimostrabile, queste parole sembrano tradire un’ambivalenza, alla luce di ciò che è stato fino ad ora confermato dal processo: se infatti davvero è lei la responsabile della morte procurata di Bergamini, è proprio del silenzio del solo che vede tutto – fin nell’intimo dei nostri cuori – che allora e per decenni ha approfittato, ed è proprio della sua personale terribile libertà di decidere per il male che ha goduto. Ma il silenzio di Dio è solo apparentemente inerme e il suo lasciarci fare è tutt’altro che resa all’ingiustizia, anche quando quella umana non dovesse arrivare alla verità.
LA RELAZIONE CON DENIS BERGAMINI
Nato ad Argenta, in provincia di Ferrara, nel 1962, Donato “Denis” Bergamini era arrivato fino in serie B con il Cosenza, che lo avevo preso nel 1985; corteggiato anche da altri grandi club rimase in Calabria, la sua ultima partita fu contro il Monza, una settimana prima della morte. Lui e Isabella Internò, di 7 anni più giovane, ebbero una relazione piuttosto tormentata per circa tre anni. Nel 1987 la ragazza rimase incinta ma, secondo le dichiarazioni della sorella di Denis Bergamini, non aveva alcuna intenzione di tenere il bambino perché lui non l’avrebbe sposata «a causa del suo carattere ossessivo», spiega il procuratore D’Alessio.
In questo tipo di pensieri e di decisioni è germinata anche quella di ucciderlo: questioni di onore, una cosa – dirà la Internò all’amica Tiziana Rota – che quelli del nord non possono capire. Aveva continuato a cercarlo, seguirlo e controllarlo – vero e proprio stalking, diremmo oggi -, ma Denis non aveva più intenzione di tornare con lei, nonostante fosse disposto a riconoscere il bambino e fosse stato inizialmente contrario all’aborto. Per Isabella lui era «un uomo morto, “perché mi ha disonorata, deve tornare da me perché io lo faccio ammazzare”, qualora non fosse tornato indietro sui suoi passi».
L’IPOTESI INACCETTABILE DEL SUICIDIO
Quando viene trovato il cadavere di Bergamini i due non si frequentavano più da tempo, e questo è uno degli elementi che fin da subito ha insospettito. Alle 19:30 di sabato 18 novembre 1989 Denis viene trovato morto sulla SS 106 Jonica, vicino a Roseto Capo Spulico, apparentemente investito da un camion. Il camionista sarà assolto in due gradi di appello, ma l’ipotesi del suicidio inizierà fin da subito a non convincere familiari, amici e compagni di squadra, anche se per molti anni il caso rimane archiviato.
La conferma di questi sospetti dei familiari e amici di Denis Bergamini arriverà dal corpo riesumato del calciatore, trovato in ottimo stato di conservazione: la morte è avvenuta per asfissia con una sciarpa o un sacchetto, qualcosa che non ha lasciato segni evidenti. Una verità, questa, già emersa dalla prima autopsia del 1990, ignorata però dagli inquirenti e confermata anche nel 2013 dai Ris – ma diventata decisiva solo 11 anni più tardi con la riapertura del caso e la condanna dell’unica imputata.
L’ONORE DA SALVARE, DUE VITE DA BUTTARE
Si tratta di verità processuale, eppure ciò che emerge con sempre più chiarezza nella ricostruzione di questa storia, che colpisce per la meschinità e il disprezzo dell’altro, è che ciò che ha mosso i protagonisti dell’oscura vicenda è la piccola presenza di una nuova vita, presto sacrificata ad altri stupidi ideali, poco comprensibili e non solo al Nord. Isabella, giovanissima all’epoca dei fatti, considerava inaccettabile non ottenere dall’uomo con il quale aveva intrattenuto rapporti sessuali il cosiddetto matrimonio riparatore.
Il bambino pare non godere di alcuna dignità propria, la sua vita figura più come uno strumento per trattenere il giovane; perché la Internò aveva aspettato fino al quinto mese? Forse per avere più potere persuasivo nei confronti di Denis? Non si sa. Certo, ciò che è emerso in merito alla condotta dell’uomo non fa nemmeno di lui un esempio di virilità eroica e di paternità modello. Ciò nondimeno Denis Bergamini si era dichiarato contrario alla soppressione del piccolo e disposto al suo riconoscimento legale, anche se in seguito aveva assecondato la donna, accompagnandola a Londra per abortire ad un’epoca gestazionale superiore ai termini di legge italiani.
Eppure non le era bastato: lui doveva morire, se non poteva più essere suo, non doveva essere di nessun’altra. Dichiarazioni che oggi siamo abituati a vedere impugnate come prove schiaccianti di quel nuovo reato denominato femminicidio. In questo caso – se non fossimo sufficientemente rispettosi della dignità della nostra lingua e della totale uguaglianza e dignità di ogni persona -, potremmo forse utilizzare un cacofonico “maschicidio” per riferirci all’assassinio di Denis Bergamini. Ma non ci interessa, anche perché le persone fatte morire con intenzione e a difesa di un anacronistico “onore” sono due: e della prima non si conosce il sesso (Fonte foto: Ansa).
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