Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. Oggi l’incontro con Maestro Milo Lombardo, pittore e scultore di fama
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C’è una differenza tra l’artigiano e l’artista, ma qualcosa li accomuna: essere dietro le quinte di una creazione. Mi trovo a colloquio con il Maestro Milo Lombardo, pittore e scultore di fama: «Volevo fare il falegname – confida subito –, perché mi dava modo di costruire, di toccare le materie. Quando, però, sono stato folgorato dal colore mi sono sentito rapito».
L’attività artistica, infatti, non è solo “un fare”, ma ha il suo inizio nell’attività contemplativa, perché la bellezza è il fine ultimo dell’arte: «Ho sempre voluto dipingere il bello. L’ho sempre amato, perché anche nel futuro il bello sarà la felicità di tutti e salverà il mondo. Non ci sono parole davanti a ciò che stiamo portando di negativo nel mondo, l’unica cosa che può salvarlo è il bello e amarsi gli uni gli altri. Io mi sono innamorato della pittura. Vivo per questo, per tentare di trasmettere un po’ di più – anche mediante la mia piccola esperienza – questa bellezza da dare a chiunque».
Se la bellezza è un trascendentale – che supera ogni specie di genere e di categoria, e analogicamente si ritrova in ogni essere –, si esprime compiutamente solo in Dio. Non posso, pertanto, esimermi dal domandare a Milo il suo rapporto con la fede: «Io credo, altrimenti non farei questo lavoro, ma la fede oggi si sta perdendo. Ciononostante, continua a permeare molto la mia vita, e l’ho rappresentata anche nei soggetti religiosi che ho realizzato lavorando in diverse chiese. Pure in questo caso ho voluto trasmettere un messaggio di felicità, mai di tristezza».
A tal proposito, abbiamo alle nostre spalle un enorme quadro intitolato L’ultima cena, e il suo autore prende a parlarmene: «Questa è un’opera abbastanza impegnativa, dove ho riflettuto molto prima di realizzarla, facendo parecchi bozzetti e documentandomi su altre ottime scene con il medesimo soggetto. A un certo momento, mi sono chiesto: “Cosa dipingo su questa tela così grande?”, e non vi ho lavorato per qualche mese. Una mattina, invece, ho cominciato – non so cosa sia successo – e l’ho abbozzata con un carboncino a matita e ho visto che c’era qualcosa da tirar fuori». Ed eccone la descrizione: «Vediamo un uomo girato di spalle, dove nessuno riesce a capire che volto ha: il significato di questa scelta è per dire che noi possiamo essere come Dio, perché siamo stati creati “uguali” a quest’“uomo”. La cena è poi fatta all’aperto, e per me è una cosa meravigliosa: ricorda lo stare in mezzo alla natura con tutte le belle cose che l’uomo è riuscito a mettere assieme (il cibo, la compagnia, l’amicizia…). Sono soddisfatto di quest’opera, spero possa emozionare come emoziona me».
Interrompo: pare esserci un parallelismo con il XXXIII canto del Paradiso in cui Dante vede nel secondo cerchio l’effige di un uomo (Gesù Cristo) che richiama anche l’umanità del Poeta, a dire che siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza: «Noi dovremmo essere come Lui. Per me è magnifico il poter stare insieme con tanta gioia ai parenti, agli amici, agli altri invitati, gustando quella gloria da riconoscere intorno a quel tavolo». Mi viene poi confessato un ulteriore dettaglio tra le risa: «Mi sono messo anch’io dentro – chissà perché –, ma visto di spalle con la testa pelata, una figura notata da tutti e dove mi si riconosce!». Un’altra pittura è stata donata personalmente a papa Francesco e ora si trova nei Musei Vaticani: «Questo è stato per me il massimo che potevo sognare! Sono contento di poter sporcare un po’ di tele, di comunicare ancora qualcosa di nuovo. L’idea del quadro l’avevo già da tempo, quando ho visto quel famoso abbraccio tra i due Papi. Mi sono immaginato anche la loro emozione, non piangevano di commozione, ma sono persuaso che il loro cuore batteva mille all’ora, e forse anche più! Ho voluto, quindi, ritrarre quel momento di portata storica unica».
Chiedo a questo punto quale sia la sua creazione migliore: «Io dico sempre che è quella che farò. Per me sono tutte belle, perché in tutte ricerco la bellezza da trasmettere». Milo suole definirsi un “astrattista figurativo moderno” e il suo stile è inconfondibile: «Ho amato molto gli Impressionisti e soprattutto Giuseppe Segantini [divisionista], il quale mi ha dato quella forza di continuare a portare avanti la sua tecnica (lui dipingeva con la punta del pennello). Dopo averlo studiato a fondo, ho cercato di rendere più attuale il suo metodo, soprattutto in vista dell’oggi dove tutto è elettrico, veloce e deve essere rapido. Per me, ad esempio, più che il lavoro è l’idea che conta, perché quando il progetto è chiaro basta poi poco tempo per realizzarlo».
So che ha incominciato a studiare e a conoscere gli artisti sia sui libri sia incontrandoli: «Ho avuto la fortuna di essere stato in relazione con parecchi. La quasi totalità degli artisti dall’inizio del Novecento a oggi li ho conosciuti e, direi, ci siamo frequentati; era stupendo quando ci si riuniva, ci amavamo. Chi vendeva quadri aiutava e dava da mangiare a chi non aveva venduto niente. Vivevamo di fratellanza, come fossimo una famiglia. E questa era la nostra forza (oggi questo non esiste più). Se devo, però, nominare qualcuno in particolare voglio ricordare Giuseppe Migneco e Aligi Sassu, già famoso quand’ero molto giovane, con cui ho avuto l’occasione di collaborare. Questi incontri mi hanno dato la possibilità di affermarmi nel mondo dell’arte».
La carriera era iniziata quando, giovanissimo, aveva deciso di lasciare casa per dare avvio al suo sogno, perché all’epoca per i suoi genitori era impossibile sostenerlo: «Vengo da una famiglia contadina e di pescatori, e vedevano la pittura come una cosa dei “signori” che avevano qualche soldo. Mio padre era preoccupato, diceva: “Sei pazzo, ma cosa fai?”, ma testone com’ero non ho abbandonato il mio proponimento e, per esempio, mi sono fatto il cavalletto da solo con le strisce dell’albero di ulivo. Negli ultimi anni della loro vita i miei mi hanno anche aiutato, ma soprattutto hanno visto la mia soddisfazione ed erano contenti». Interrogo: quanto è importante la famiglia? «Importantissima! Pensa, sono stato cresciuto coi miei fratelli (eravamo in cinque!) in una stanzetta, eppure siamo stati educati con lo stesso metodo rispetto alla vita, alla Chiesa e a come ci si comporta. E ancora oggi ci amiamo tutti».
Per il mio interlocutore era ed è impossibile vivere senza l’arte: «Non ci riesco, ho provato a impormi di non dipingere, ma non ho resistito per più di una giornata. Quando ho iniziato non avevo neanche il laboratorio, perciò lavoravo in casa, e ogni volta dovevo smontare gli attrezzi per far spazio alla moglie che doveva preparare da mangiare o pulire. Poi finalmente, quando sono entrato nel giro vero dell’arte, ho potuto guadagnare qualcosa e aprire il mio atelier. E adesso passo otto o nove ore davanti al cavalletto, scoprendo che ho ancora da imparare dai grandi pittori».
Di là dal meritato successo, la gavetta non è mancata: «La mia esperienza – come quella degli artisti degli anni Cinquanta fino a poco tempo fa – era dura, perché era difficile vendere qualche opera, era difficile sopravvivere, nonostante i Maestri fossero bravi. Ho avuto, però, la fortuna di conoscere questi grandi personaggi (molti dei quali non ci sono più), che aiutavano gli esordienti come me a tirare avanti. Ora siamo in pochi a fare la vecchia pittura con un pizzico di modernità, mentre i ragazzi di oggi sono bravi, non lo metto in dubbio, però consiglio sempre loro di cominciare con l’accademia. Molti giovani non vogliono studiare e vogliono bruciare le tappe, pensando a guadagnare subito, a vivere bene, a spendere, e ogni cosa gli appare facile. In realtà, ci vuole tempo, studio, capacità e qualità nel campo dell’arte».
Rilancio: ai giovani che si affacciano a questa vita, quale consiglio dare? «Posso solo dire di continuare a studiare, di essere un po’ più semplici e di amare la giornata, imparando giorno per giorno quel poco che ti dà per metterlo da parte. E aggiungerei: “Non vi illudete molto, non pensate di andare velocemente, perché tutte le cose veloci vanno a finire presto in cantina. Costruite invece con le vostre capacità il domani”». Dopo questo dialogo mi convinco che davvero la bellezza è lo splendore dell’essere per cui l’attività artistica principia in quella contemplativa, dove il bello – connaturale all’uomo – è fatto di intelligenza e di sensibilità. Le stesse qualità promanate dalle parole e dall’arte del Maestro Milo.
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