È diffusa la convinzione, tra i mondani, che una morte “dignitosa” sia una morte che non implichi dolore, non implichi sofferenza. La vita stessa, per essere considerata “degna” [di essere vissuta], dev’essere piacevole, o almeno pacifica. Da qui la legittimazione, in ambito laico/laicista, dell’eutanasia, la “buona morte”, attuata appellandosi a tre principi: il principio di beneficenza, secondo il quale un’azione è lecita in quanto procura un beneficio; il principio di non maleficenza, secondo il quale un’azione è lecita se non procura danno; il principio di autonomia, secondo il quale un’azione è lecita se rispetta la volontà del soggetto. Quanto ai primi due principi, è indispensabile chiedersi, prima ancora di affermarli: cosa è bene e cosa è male? Chi lo stabilisce? Si tratta di concetti relativi oppure – come sono realmente – assoluti?
Esiste una legge naturale, che coincide con la legge di Dio? Quanto al terzo principio: un’azione è lecita se rispetta la volontà del soggetto coinvolto o, piuttosto, esistono un “lecito” e un “illecito” oggettivi? Un’azione è lecita se rispetta una volontà soggettiva, oppure è lecita se rispetta la Volontà oggettiva [di Dio]? Ancora a proposito della volontà del soggetto, si dice che l’eutanasia sia praticata nell’interesse del paziente; per far cessare le sue sofferenze, quindi per pietà. Potrebbero essere coinvolte anche altre volontà soggettive, ovvero quelle delle persone a lui prossime, che proprio “per pietà” potrebbero acconsentire a una “soluzione” del genere. Se ci pensiamo, al di là delle apparenti buone motivazioni, alla base di una scelta come quella eutanasica c’è sempre una base di egoismo, proprio o altrui.
L’egoismo dell’eutanasia era evidente ai tempi dei nazisti: si chiamava “eutanasia”, “buona” morte, “sacrosanta” o almeno “giustificabile” anche l’eccidio perpetrato dal regime ai danni dei portatori di handicap,la cui vita – soggettivamente – era “indegna” di essere vissuta. Queste persone venivano uccise perché “inutili”, un “peso per la società”, e la loro morte poteva considerarsi “buona”, un lieto evento, per la collettività. Qui, l’egoismo altrui è evidente. Nell’“eutanasia” moderna, invece, la morte è intesa come evento “buono”, prima ancora “auspicato”, per colui che ne fa ricorso. Ugualmente egoista, in fin dei conti, perché così facendo attesta di vivere per il piacere. Attesta, in altre parole, che una vita è degna di essere vissuta nella misura in cui è piacevole (la vita non avrebbe dunque un valore in se stessa; un valore oggettivo, un valore divino) e attesta – volendo metterla sul piano confessionale – di non essere disposto a “completare nella sua carne ciò che manca alle sofferenze di Cristo, a pro del corpo suo che è la Chiesa” (Col 1,24)
Ammettendo pure, per assurdo, che l’eutanasia determini la cessazione della sofferenza (è comunque vero che determina la cessazione della sofferenza visibile, terrena), comunque non si tratterebbe di una morte dignitosa, degna di un essere umano. Al contrario! Per dirla come la diceva Pascal, “il dolore l’animale lo evita”, mentre “l’uomo lo sopporta”. Citazione completa: “il dolore l’animale lo evita, il filosofo lo contesta, l’uomo lo sopporta, il cristiano lo accetta, il santo lo cerca”. Cosa starebbe attestando, ancora una volta, un paziente che dovesse optare per l’eutanasia? Starebbe attestando che la sofferenza, per un uomo, è il male assoluto; cosa che potrebbe anche esser valida se per “uomo” intendessimo una creatura fatta solo di carne e al massimo di morale… se l’uomo fosse un animale, per l’appunto!
Ma tutti questi discorsi intorno alla stessa eutanasia, le problematiche etiche che egli pone, le prospettive spirituali che i più consapevoli non negano, dimostrano che l’uomo ha una vita dello spirito, oltreché una vita biologica. Il benessere e il malessere della sua parte più bassa, insomma, sono del tutto relativi ed effimeri. “Essere vivi in senso biologico è relativamente poco importante”, sosteneva qualche teorico pro-eutanasia (J. Rachels), e ciò è vero! Ma proprio perché la vita biologica conta relativamente, proprio perché essa è un mezzo e non un fine, ebbene… lo stato di sofferenza della nostra parte biologica non può e non deve giustificare l’uccisione di quella che lo stesso Rachels definiva “vita biografica”. Noi diremmo, invece: “vita spirituale”. Ecco come la premessa dell’eutanasia- “modo dignitoso” per morire viene a mancare.
Paradossalmente, si tratta di un modo di morire “dignitoso” solo per un animale, un essere per cui la sofferenza è veramente insensata e per cui la sofferenza è veramente il massimo dei mali (non avendo nient’altro che questa vita…). È questo il motivo per cui l’eutanasia degli animali, e solo quella, è moralmente lecita. In conclusione, il diritto alla vita umana è qualcosa di assoluto, non condizionato dal funzionamento biologico più o meno buono del soggetto in questione. Dalla sua “efficienza biologica”. A noi la scelta: morire così o morire abbracciando la croce? Morire come animali o morire come è morto Dio? (Fonte foto: Pexels.com)
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