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Il bimbo Neanderthal con sindrome di Down e la riscoperta della compassione
NEWS 6 Luglio 2024    di Paola Belletti

Il bimbo Neanderthal con sindrome di Down e la riscoperta della compassione

Il Post riporta una notizia interessante e paradossalmente attuale anche se si riferisce ai pochi resti fossilizzati di un bambino vissuto tra 273.000 e 146.000 anni fa, in Spagna: «Il 26 giugno la rivista Science Advances ha pubblicato in un articolo i risultati di un’approfondita analisi condotta sul fossile di un Neanderthal da un gruppo di ricerca guidato dalla paleoantropologa spagnola Mercedes Conde-Valverde, insegnante dell’università di Alcalá, in Spagna. L’analisi del fossile, composto da parti del cranio di un individuo di circa sei anni di età, indicherebbe la presenza di una patologia congenita all’orecchio interno comunemente associata alla sindrome di Down e probabilmente debilitante al punto da richiedere le cure e le attenzioni di più adulti». Siamo bravi, in effetti, a scoprire le patologie di un individuo, perlomeno alcune, sia che debba ancora nascere sia nel caso sia deceduto da centinaia di migliaia di anni. È quello che decidiamo di fare con queste informazioni che forse questa notizia può aiutarci a mettere in discussione.

Da decenni, per le donne in gravidanza, è divenuta prassi effettuare una serie di test, alcuni non invasivi, altri invece con ancora un tasso di rischio significativo, per scoprire prima della nascita se il futuro bambino sia affetto da patologie, menomazioni, sindromi di vario genere. Uno dei bersagli più facili è proprio la sindrome di Down, patologia cromosomica caratterizzata da alcuni tratti somatici peculiari, disabilità intellettiva con grado variabile e altre malformazioni ricorrenti o predisposizione a malattie importanti: il 40-50% dei bambini presenta malformazioni cardiache congenite, diffuse anche alcune malformazioni intestinali. In questi bambini sono molto frequenti anche difficoltà uditive e visive e un aumentato rischio di sviluppare obesità, disturbi ormonali, diabete, celiachia o malattie autoimmuni. L’espressività della sindrome, quindi, è variabile e può essere più o meno grave nella compromissione delle capacità della persona; di certo, però, un bimbo con sindrome di Down parte con uno svantaggio e una fragilità che reclamano una cura più intensa e prolungata da parte degli adulti.

Di questa condizione e della necessità di farsi carico della madre e del piccolo portatore della sindrome i nostri lontanissimi antenati, estintisi intorno a 40.000 anni fa, sembravano essere consapevoli. Così come sembra che fosse patrimonio comune il valore dell’accudimento comunitario e disinteressato, ovvero senza l’attesa di un contraccambio futuro da parte del soggetto che ne beneficiava. Non può che stupire come alcuni piccoli frammenti di una testolina di migliaia di anni fa riescano a testimoniarlo. I risultati dello studio realizzato dall’equipe spagnola sui resti trovati in una caverna di Cova Negra, nella provincia di Valencia, infatti, sembrano confermare questa ipotesi: «L’analisi ha mostrato che l’osso apparteneva a un individuo che aveva poco più di sei anni, soprannominato “Tina” dal gruppo di ricerca, sebbene non sia possibile stabilirne il genere. L’osso temporale è una struttura di grande importanza perché contiene e protegge la coclea e altri organi responsabili non soltanto dell’udito ma anche dell’equilibrio. Una serie di anomalie morfologiche riscontrate nel fossile […] suggerisce che Tina presentasse deficit invalidanti di vario tipo e critici per la sopravvivenza, tra cui deficit cognitivi, una ridotta capacità di suzione e una mancanza di coordinazione motoria e di equilibrio».

Per quale motivo l’età della piccola (o del piccolo) e le conoscenze delle condizioni di vita dei Neanderthal sarebbero così importanti? Per il fatto che la sopravvivenza di Tina e di sua madre non sarebbe stata possibile senza il costante supporto della comunità di appartenenza. E questo proverebbe anche che non sarebbero solo i Sapiens ad essere così “umani” (altruisti, compassionevoli), ma anche la popolazione neanderthaliana. «Considerando lo stile di vita impegnativo e l’intensa mobilità dei Neanderthal, scrive il gruppo di ricerca, è difficile immaginare che la madre di Tina sarebbe stata in grado di fornirle da sola le cure necessarie e nel frattempo svolgere per un periodo di tempo prolungato le normali attività quotidiane tipiche dei gruppi di cacciatori-raccoglitori. È molto più probabile che abbia ricevuto continuamente aiuto da altri membri del gruppo sociale di cui lei e sua figlia facevano parte. «È la spiegazione più semplice per il fatto sorprendente che un individuo con sindrome di Down sia sopravvissuto per almeno sei anni in epoca preistorica», ha detto Conde-Valverde al Washington Post.

Queste conclusioni, avvalorate da altre ricerche su individui Neanderthal i cui scheletri mostrano lesioni traumatiche guarite, indeboliscono l’altra ipotesi degli studiosi che ricondurrebbe le azioni di accudimento e cura a puro calcolo utilitaristico: mi prendo cura di te adesso perché mi attendo lo stesso trattamento quando dovesse capitare a me. Un do ut des non applicabile al caso della piccola trisomica, colpita da una condizione non transitoria e che forse sapevano già essere connessa a una bassa aspettativa di vita. Sembra allora più verosimile che nelle comunità di questa specie umana fosse consolidata una forma di altruismo e benevolenza fine a sé stessi, non utilitaristici. Forse era già chiaro anche a questi antenati spinti più di noi da bisogni primari, di difesa da animali feroci, di protezione da fenomeni atmosferici potenzialmente catastrofici e dalla costante necessità di procurarsi il cibo, che l’altro, in qualsiasi condizione gli fosse toccato di venire al mondo, era un valore in sé e per gli altri. Una considerazione che, visto il massiccio utilizzo di diagnosi prenatali finalizzate all’aborto selettivo, non è più patrimonio condiviso da tutta la comunità così “umana” di cui facciamo parte.

Peccato. Magari ci sarebbero state tantissime Tina in più nelle nostre famiglie a mostrare più chiaramente il senso dell’esistenza umana, a rendere forse più faticose ma anche più autentiche le giornate di tanti genitori, fratelli, compagni di scuola e colleghi. I sopravvissuti alla severa selezione in ingresso contemporanea, infatti, non di rado riescono a raggiungere buoni risultati in termini di autonomia e addirittura di prestazioni intellettive e professionali. Ma chi ha la grazia di averne qualcuno nella propria cerchia sa bene che non è affatto quello il punto, né per loro né per i cosiddetti normodotati. Forse è il caso che ascoltiamo la vocina che una bimba con sindrome di Down ha levato dalla profondità della preistoria in cui è vissuta e recuperiamo la sapidità e la sapienza che dovrebbero contraddistinguere la nostra specie. (Fonte foto: Imagoeconomica)

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