Su La Repubblica dello scorso 21 giugno, Liana Milella ha scritto contro l’iniziativa del procuratore di Avellino Domenico Airoma che, in rappresentanza del “Comitato per l’elezione di Livatino a patrono dei magistrati”, ha inviato a tutti i presidenti delle Corti d’appello italiane e ai procuratori generali la richiesta di aderire alla proposta di eleggere la figura del beato Rosario Livatino – giovane magistrato brutalmente assassinato dalla mafia nelle campagne siciliane nell’estate del 1990 – come patrono delle toghe.
Liana Milella ritiene che i magistrati debbano riferirsi soltanto alla Costituzione, lasciando fuori dal loro operare i loro convincimenti religiosi. La posizione assunta da Repubblica è criticabile nel metodo e nel merito. Nel metodo, poiché la Costituzione garantisce la libertà di coscienza e di culto per tutti, quindi anche per i magistrati che non possono subire un vulnus nei loro diritti fondamentali sol perché magistrati. Nel merito, perché l’esempio, la vita, il martirio di Rosario Livatino – a cui il Timone ha dedicato un libro che vede Alfredo Mantovano e il già citato Domenico Airoma tra gli autori – dimostrano che è facile diventare giuristi, ma è difficile essere giusti, e che una vita dedicata alla vera giustizia comporta sempre la difficoltà della testimonianza usque ad effusionem sanguinis.
Certo non si può chiedere a tutti i magistrati di diventare martiri, in nome del diritto e della giustizia, ma non si può nemmeno chiedere di non fornire loro i modelli per vivere correttamente e santamente la loro professione, come, per l’appunto, ha insegnato Livatino. Il laicismo ideologico di Repubblica è oramai fuori dal tempo, e, forse, anche fuori dal senso comune (Fonte foto: Repubblica/Ansa)
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