Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento che il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ha pronunciato al “Festival dell’Umano tutto intero” (i grassetti sono redazionali). L’evento è stato organizzato dal network di associazioni “Ditelo sui tetti” e si è svolto a Roma il 18 e 19 giugno.
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[…] insistere sulla questione antropologica, per di più indicendo un Festival dell’«umano tutto intero» – riprendendo una felice espressione di San Giovanni Paolo II –, potrebbe sembrare un mero esercizio d’accademia, una riflessione sofisticata, magari riservata a pochi […].
Venendo ad esaminare le cause che sono all’origine di questo “disinteresse antropologico”, il motivo dominante viene rinvenuto nel progresso tecnologico e nella fiducia che l’umanità vi ripone da più di due secoli. […] Alla fiducia nell’uomo, propria della svolta umanistico-rinascimentale, si è così sostituita la fiducia nella macchina da lui creata e, più in generale, nel progresso. […] Dalla rivoluzione industriale in poi è stato un crescendo: sempre più l’uomo si è allontanato da Dio, sempre più si è identificato con il risultato delle proprie azioni e sempre più è scivolato (o si è adagiato) su identificazioni parziali, frammentarie, provvisorie e precarie, perdendo una visione d’insieme di sé, capace di unificare tutti gli esseri umani, senza distinzioni di sesso, di età, di razza o di condizione sociale. […]
Più la nostra società aumenta il grado di automazione e più assomiglia all’apprendista stregone della famosa ballata di Goethe, il quale si avventura in un incantesimo che non è poi in grado di padroneggiare e le cui conseguenze sfuggono al suo controllo. È in quest’ottica, d’altronde, che possono essere visti e considerati i problemi suscitati dal crescente impiego dell’Intelligenza Artificiale, dinanzi alla quale si pone l’esigenza di una vera e propria difesa dell’umano […]
Se è senz’altro vero che tutti questi sviluppi siano largamente dipesi dall’incalzare del progresso scientifico e dal fascino di potenza che questo ha esercitato sull’umanità, ritengo tuttavia che la svalutazione della riflessione sull’uomo abbia anche altre ragioni, più profonde e – proprio per questo – prima facie meno intellegibili.
La questione antropologica è stata accantonata anche perché essa in fondo – una volta che la si affronti seriamente e radicalmente – mette in evidenza e fa venire alla luce la costitutiva fragilità dell’essere umano in quanto tale; il suo essere non solo una canna ma anche, come suggestivamente dice Pascal, la canna più fragile di tutta la natura. […]
Ed è così che dietro la fuga dell’uomo da sé, dalla discesa nelle proprie profondità, si cela in fondo la fuga dell’uomo dalla sofferenza, in tutte le sue molteplici declinazioni. Muto e incapace di risposta, l’uomo retrocede dinanzi ad essa, preferendo vivere alla superficie di sé e identificarsi nelle cose che fa e in quelle sensibili che lo circondano, con un comportamento e uno stile di vita sempre più “irragionevole”, nella misura in cui cerca di eludere o dimenticare quelle domande. […]
Da altro lato, la domanda sull’uomo è sempre sopravvissuta e rimasta vitale in ambito cristiano, dove è stata affrontata, ripresa e riletta alla luce del cambiamento dei tempi; nel corso delle diverse epoche e anche di recente si è sempre cercato cosa nell’umano resti costante ed essenziale, cosa costituisca il suo fondamento profondo, cosa occorra sempre approfondire, custodire e valorizzare. […]
A questo scopo occorre impegnarsi affinché l’«eccezione italiana» (nel senso inteso da San Giovanni Paolo II) continui ancora ovvero venga recuperata, qualora si reputi che nel frattempo sia andata perduta, in entrambi i casi promuovendo la visione cristiana sull’uomo con l’entusiasmo e la convinzione di chi sa che proprio questo è l’ambito dove non solo il cristianesimo ha qualcosa da dire, ma in cui ha da dire la cosa più importante, che mai nessuno ha detto prima. Infatti, se la domanda sull’uomo è sempre rimasta vitale in ambito cristiano non è solo perché nessuna filosofia, ma anche nessuna religione, ha mai attribuito all’uomo il valore, l’importanza, la centralità e la dignità che gli attribuisce il cristianesimo, in cui Dio, nella persona di Gesù Cristo, assume la natura umana per unirla alla propria natura divina e così elevarla fino a Sé. La vitalità, tutta cristiana, della riflessione sull’uomo non è solo conseguenza di questo (infinito) valore trascendente della persona umana, ma deriva anche dal fatto che il cristianesimo ha la risposta alle domande che tanto angustiano l’uomo e che grandemente lo scomodano, nella misura in cui lo conducono a prendere contatto con la propria finitudine.
Questa risposta non è un concetto filosofico e nemmeno un’idea, essa risiede nella persona del Signore Gesù Cristo, che il Concilio di Nicea del 325 d.C. indica infatti non solo come vero Dio, ma anche come vero uomo. È come vero uomo, infatti, che il Signore assume la condizione creaturale dell’essere umano “tutto intero”, andando al cuore della sua povertà radicale, vivendola fino in fondo, senza scartare nulla, “umiliando” se stesso, “svuotando” se stesso – come insegna l’Apostolo Paolo nel celebre inno ai Filippesi – fino alla morte e alla morte di croce. È nel Signore Crocifisso che tutta la povertà dell’uomo, tutta la sua miseria, tutto il suo bisogno di essere accolto, compreso e amato, vengono radicalmente assunti da Dio e da Lui trasformati.
Ciò che umanamente rappresenta una situazione di fine, di solitudine, di disperazione, di angoscia e sofferenza, tutte queste condizioni – umanamente miserevoli – diventano invece il luogo dove potere incontrare l’amore incondizionato di Dio, che trasforma la miseria costitutiva dell’uomo nella condizione di possibilità della Sua misericordia.
Se la domanda antropologica viene ignorata nel dibattito comune, così come dalla cultura dominante, non è per cattiveria né per difetto di intelligenza, ma perché nessuno, lasciato a se stesso, con le proprie sole forze, può confrontarsi e misurarsi con la radicale povertà del proprio essere. Si comprende pertanto molto bene come tutti fuggano da queste profondità e si trovino quindi inevitabilmente disorientati, se non disperati, ogni qualvolta la sofferenza appaia nella propria vita. Ed è questa “fuga” che prepara il terreno e apre le porte a quella “cultura dello scarto”, contro la quale più volte si è pronunciato Papa Francesco, la quale educa in fondo a rifiutare radicalmente tutto ciò che nella vita presenti il sapore amaro della sofferenza.
Nel Signore Crocifisso, invece, noi vediamo che quanto c’è di precario e fragile nell’uomo, in ogni uomo, non viene scartato, non viene rinnegato, né disprezzato. Esso viene invece trasformato, per diventare luogo di misericordia […].
Una sintesi efficace e brillante di ciò la riceviamo, ancora una volta, in uno dei pensieri di Pascal, che ammonisce come «la conoscenza di Dio, senza la conoscenza della propria miseria genera l’orgoglio. La conoscenza della propria miseria senza la conoscenza di Dio genera la disperazione. Mentre la conoscenza di Gesù Cristo sta tra i due estremi, perché in essa troviamo Dio e la nostra miseria (n. 527).
È questa conoscenza a rendere l’esistenza umana “ragionevole”, permettendo all’uomo di recuperare insieme all’unità del proprio essere anche l’unità del proprio vivere. Egli non deve fare più esercizio di scarto di ciò che in sé è debole, miserevole, precario o sofferente. L’umano «tutto intero», che il Signore ha assunto identificandosi in esso e portandolo così a compimento, questo umano «tutto intero» è il giovane come l’anziano, il sano come il malato, l’uomo di successo, efficiente, ammirato e stimato, come quello fragile, sofferente, abbandonato e da tutti dimenticato. […]
*Cardinale, Segretario di Stato Vaticano
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