1972: L’INCIDENTE DEL VOLO 571 SULLE ANDE
Sono passati 52 anni dal disastro aereo e dalla storia di sopravvivenza tra le più terribili e potenti che il mondo ricordi. Sulla rivista Hola è comparsa una intensa intervista a uno dei sopravvissuti e, insieme a Roberto Vanessa, salvatore per gli altri superstiti che ancora resistevano in cima alle Ande, in attesa di soccorsi, Nando Parrado, il “Mosè delle Ande”. La rivista ricostruisce innanzitutto i fatti: «Il pomeriggio del 21 dicembre 1972, il comandante della forza aerea cilena Carlos García Monasterio ricevette la sorprendente notizia che due dei passeggeri del volo 571 della forza aerea uruguaiana, schiantato nelle montagne il 13 ottobre, con 45 persone a bordo (19 membri della squadra di rugby Old Christians Club, familiari e amici) erano apparsi. Per settimane – in più di 100 missioni – la sua traccia era stata cercata senza successo nella valle di Las Lágrimas, un muro di rocce e ghiaccio a quasi 4.000 metri di altezza, al confine tra Cile e Argentina. I sopravvissuti sono stati salvati il 23 dicembre, dopo 72 giorni di sussistenza in condizioni estreme. Solo 16 sono stati in grado di tornare».
ORSÚ, DUNQUE, AVVOCATA NOSTRA
In quelle condizioni, ragionevolmente ritenute letali per la loro durezza, unita al lunghissimo intervallo durante il quale nessuna ricerca era andata a buon fine, i protagonisti di questa storia che sono riusciti a tornare a casa non hanno dubbi, la differenza l’ha fatta la loro comune fede e l’aiuto della Vergine Maria, così insistentemente invocata. Il fatto che molti di loro fossero cattolici, la squadra di rugby infatti era composta da studenti provenienti dallo Stella Maris College, dal Seminario College o dal Sacro Cuore dei gesuiti, è stato determinante nel permettere loro di fronteggiare un luogo che sembrava peggiore dell’inferno. Erano in una gelida, durissima valle di lacrime ma, come sanno i cattolici che cantano il Salve, Regina, potevano ricorrere alla presenza potente e consolante della Madre di Cristo, sia che il loro destino fosse di vederlo faccia a faccia di lì a poco, sia che fosse di tornare a vivere – ma come una sorta di seconda vita, dirà qualcuno – in questo esilio terreno.
DONARSI FINO IN FONDO
Leggiamo su Religion en libertad come «la presenza costante della preghiera del Rosario durante i 72 giorni in montagna, il patto per consegnare i loro corpi al resto in caso di morte, il rapporto con un Dio così vicino – come le lettere del defunto Gustavo Nicolich– o che molti dei protagonisti non hanno mai creduto che ciò che è successo potesse essere qualcosa di casuale, fa pensare che il protagonismo di Dio in montagna fosse determinante». Nando Parrado ne è sicuro, quella è stata l’esperienza più dura che gli sia toccato vivere: nei giorni successivi alla caduta dell’aereo, con un’ala spezzata e la fusoliera ridotta a due tronconi, ha visto morire la madre, la sorella e due cari amici. «Essere vivo oggi e poter godere della seconda parte della mia unica vita mi rende felice perché ho una famiglia. Essere in grado di respirare ogni giorno, vivere il presente e lasciarlo nel passato per me è un trionfo massimo».
Il solo motore che ha permesso di resistere e anche di morire sapendo di potersi offrire a chi restava era l’amore che li legava saldamente l’uno all’altro. Ha un chiaro riverbero eucaristico la disponibilità di chi sarebbe morto a lasciarsi mangiare perché altri vivessero. E’ terribile, certo, ma non macabro. Un cristiano sa che il corpo è dono di Dio e in una condizione assolutamente fuori dall’ordinario ha potuto essere degnamente lasciato ai fratelli ancora vivi perché, nutrendosene, potessero resistere. Una tenacia e una speranza incredibili, quelle dimostrate da quei ragazzi e una statura umana che forse nemmeno sapevano di avere, ma che la fede aveva forgiato e la prova aveva chiamato in causa.
UN PASSO DOPO L’ALTRO, UN’AVE MARIA DOPO L’ALTRA
Nando e Roberto, con le poche forze residue e senza le attrezzature necessarie a traversate in alta montagna, partirono da 3570 metri e camminarono per dieci giorni, scalando la vetta a ovest del luogo del disastro, fino a scendere nelle valli sul versante cileno della cordigliera andina dove trovarono aiuto. «Il 22 dicembre, due mesi e mezzo dopo lo schianto, i 14 superstiti rimasti sul posto furono tratti in salvo». Come hanno fatto? Un passo dopo l’altro, pregando l’Ave Maria in un modo tale che il nunc et in hora mortis nostrae tendevano in ogni istante a coincidere, nella chiara consapevolezza del rischio costante di morire.
«Io ho pregato molto. Pregavo l’Ave Maria tutto il tempo. Inoltre, eravamo separati (Fernando e Roberto, ndr) a volte da 50 o 100 metri, non stai chiacchierando con il tuo amico, ma stai andando a un ritmo devastante, un ritmo che non si ferma, pum, pum, pum. Avrò pregato circa dieci milioni di Ave Maria in quel viaggio e credo che la Vergine, in questo modo, mi abbia aiutato. Non sapevo se sarebbe durata due ore in più, tre o mezza giornata. Non potevo immaginare un futuro perché, fino all’istante in cui ho visto quel mulattiere cileno, ero morto. E oggi che ho la possibilità di avere quel futuro, cerco di godermi ogni volta che respiro. Solo una serie di piccoli miracoli rende possibile per noi essere qui». (Foto: Screenshot, Benalf79 – Alive/ Bernardo Quinn – YouTube)
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