Il 9 febbraio 2009 è morta a 39 anni Eluana Englaro. Un incidente avvenuto 17 anni prima le aveva provocato gravi lesioni craniche e una frattura alla seconda vertebra, lasciandola tetraplegica e in coma. L’anno prima, il padre Beppino si era visto negare la possibilità di interrompere l’alimentazione artificiale che teneva in vita sua figlia dall’allora direttore generale Carlo Lucchina. Tuttavia, nel 2007 la Cassazione, con una sentenza storica, aveva stabilito che ciascun individuo può rifiutare le cure alle quali è sottoposto se le ritiene insostenibili e degradanti e nel 2008 la Corte d’appello di Milano aveva autorizzato l’interruzione del trattamento.
Come tutore, il padre chiese di staccare il sondino con cui veniva alimentata la figlia, ma il direttore generale firmò una nota che diceva che le strutture sanitarie si occupano della cura dei pazienti, che comprende sicuramente la nutrizione, e di conseguenza i sanitari che l’avessero sospesa sarebbero venuti «meno ai loro obblighi professionali». Oggi, a quindici anni di distanza, la Corte dei conti ha deciso che fu una «concezione personale ed etica del diritto alla salute» a spingere Lucchina a impedire l’interruzione del trattamento.
Condannato in appello, dovrà ora pagare all’erario 175mila euro, la somma che la Regione aveva versato a Beppino Englaro come risarcimento, poiché quest’ultimo aveva dovuto trasferire la figlia in una struttura sanitaria in Friuli, dove poi è morta. Così, nel 2017 la Corte dei conti avviò un procedimento erariale verso Lucchina: inizialmente, fu assolto in primo grado dai giudici, ma la sentenza venne in seguito ribaltata dai giudici d’appello. Nel testo si legge che la Corte definisce il rifiuto dell’ex dirigente – al quale ha espresso solidarietà il Network sui Tetti – come «frutto di una personale e autoritativa interpretazione del diritto alla vita e alla salute». Lucchina, che valuterà se ricorrere in Cassazione, ha dichiarato in risposta: «Non è stata un’obiezione di coscienza, ma sono state applicate le direttive arrivate anche dall’avvocatura regionale».
«Bisognerebbe chiarire che le evoluzioni culturali hanno i loro tempi. Bisognerebbe chiarire queste cose una volta per tutte e per tutti, è una questione di diritto umano universale», così Englaro aveva dichiarato in un’intervista rilasciata a Repubblica, riferendosi al caso di Indi Gregory. «In questi casi», aveva proseguito, «andrebbe stabilito in tutto il mondo chi ha la responsabilità di scelta e, una volta stabilito, non si discuterà più, se ne prenderà atto e basta».
Tutto torna. In un’ottica capovolta per cui dare la morte diventa un diritto, è inevitabile che sostenere la vita diventi una «concezione personale» che intralcia l’ultima parola di chi avrebbe il “diritto di scelta” finale. E se una qualsiasi corte decide che sia doveroso uccidere vite “inutili”, quale sarà la prossima vittima? (A parlarne senza paura e senza retorica è stato sul Timone di questo mese Emanuel Cosimo Stoica che con fierezza ribadisce «La vita è comunque un dono straordinario e irripetibile»).
Quale differenza sussiste tra l’odierno condannato di turno e il giuramento di Ippocrate? Oggi modificato, l’antico giuramento in origine recitava: «Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo». Ma “l’evoluzione culturale” a cui siamo approdati oggi suggerisce che alcuni tipi di morte vadano bene, siano anzi da auspicare. Prendiamo atto che chi non ci sta ne paga le conseguenze. A caro prezzo. (Fonte foto: Ansa)
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