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L’architettura sacra? «Oggi manca sacralità in chi progetta»
NEWS 20 Maggio 2024    di Samuele Pinna

L’architettura sacra? «Oggi manca sacralità in chi progetta»

Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. Oggi l’incontro con l’architetto polacco Tadeus Katner

Mi trovo in via Boscovich 32 a Milano nell’ecclettico palazzo ideato dall’arch. Giulio Ulisse Arata, che fu sede storica della Filiale italiana della casa cinematografica Pathé, dov’è ancora visibile il mosaico del primo logo aziendale a opera di Galileo Chini. Un’ardita e insieme sapiente commistione di stili conferisce grande originalità al palazzo che ospita al piano terra la sede di Chiesa oggi. Rivista di architettura e comunicazione, fu voluta fermamente da san Giovanni Paolo II più di trent’anni fa per testimoniare su carta stampata la capacità che la buona “architettura” religiosa, è in grado di portare eccellenti frutti nella comunicazione.

Gli interni sono stati in parte ridisegnati dall’architetto, industrial designer e pittore Tadeusz Katner, di origine polacca come il Santo Padre sopra ricordato. Scopro con una certa sorpresa che sono stati legati da una forte amicizia (vedi foto di un loro incontro), e l’artista innanzi a me non nega la sua smisurata ammirazione per il Vescovo di Roma che ha condotto con mano ferma e paterna la cattolicità nel nuovo millennio: «Sì, Giovanni Paolo II è stato una persona eccezionale. Ho voluto chiamare uno dei miei figli Karol e gli avevo chiesto se avessi fatto bene. Lui mi rispose pronto: “Hai fatto benissimo!”. Sono felice perché mio figlio è stato il primo polacco maschio nella storia a essere battezzato da papa Wojtyła!». Mi viene raccontato un altro aneddoto dalla enorme portata storica: «Sono stato contattato per una richiesta molto particolare, ossia se potevo far conoscere a papa Giovanni Paolo II un discendete di Toro Seduto, ultimo capo Sioux. Ho accettato e sono riuscito a realizzare l’incontro con grande piacere e non senza emozione».

A un certo punto, Tadeusz si rende disponibile a farmi un ritratto a matita. Lo scruto mentre mi guarda con attenzione per poi tracciare veloce sul foglio immacolato righe nere che, a poco a poco, delineano le sembianze del mio volto: «Quando guardo una persona – mi viene spiegato – subito dopo “vedo” il suo viso sul cartoncino». Desidero sempre più conversare con chi, a motivo di tante esperienze di vita, mi appare saggio, concreto ed estremamente generoso. Domando così a bruciapelo come mai avesse deciso di vivere dell’arte: «Frequentavo la facoltà di architettura quando, ancora studente, nell’anno accademico 1965-1966 ho ricevuto con il mio gemello Witod un “premio” a causa degli alti voti presi agli esami: poter vivere un’esperienza all’estero per fare pratica in un contesto artistico differente. Fu una cosa eccezionale, anche perché fu la prima concessione della Polonia comunista, occupata dai russi. Abbiamo aperto una strada che in seguito hanno percorso altri universitari, la concessione cioè di poter uscire dalla nostra nazione e incontrare altri mondi. Abbiamo potuto vedere i più importanti esempi architettonici d’Europa. In realtà, nel 1964 avevamo già fatto un viaggio in Italia, invitati da una famiglia, che ci ha consentito di visitare l’intera penisola!».

M’immagino la gioia dei suoi genitori e, quando voglio saperne di più, intuisco fin da subito come suo padre sia stato nella sua esistenza il sostegno e l’ispiratore: «I miei genitori sono stati “colpevoli” della mia passione per l’arte e per lo sport. Sono stato, difatti, campione di ginnastica artistica in Polonia per la squadra di Łódź e dell’esercito a Wrocław. Mio papà era un ingegnere di meccanica di precisione, che si rilassava con la letteratura e la pittura (ed era molto bravo con i pennelli!). Inoltre, suonava il pianoforte, la fisarmonica, il mandolino napoletano e amava cantare. Ho perso, invece, mia mamma a sette anni e mio padre si è occupato di me. Ogni domenica, dopo la Santa Messa andavamo a vedere Varsavia distrutta dai bombardamenti: spiegava, a me e a mio fratello, com’era la città con le sue eleganti costruzioni prima che fossero rase al suolo, facendoci vedere bellissimi libri dove si raccontava la loro storia fondamentale per chi amava l’architettura. La nostra abitazione non fu distrutta solo perché i tedeschi la requisirono come loro zona governativa. A casa mio padre costruiva modellini: è stato il primo vero e proprio laboratorio di architettura! Nostro papà era anche il nostro maestro: facevamo tutto sotto la sua direzione – che bei ricordi! – e lui faceva per noi da padre e da madre. Ci spiegava i suoi disegni professionali e così, poco alla volta, crescevamo nell’arte».

Sono venuto, inoltre, a conoscenza che Katner è stato il primo progettista al mondo della pressa meccanica, oltre che del disco volante per una giostra di Disneyworld. Non solo, in una edizione della Biennale di Venezia aveva ottenuto tutto per sé un intero padiglione dove esporre le sue opere. Di là dal suo lavoro, voglio sentire qualcosa anche di sua madre: «Mia mamma creava abiti di alta moda. Era all’avanguardia, una donna sportiva – papà diceva di aver imparato a nuotare grazie a lei –, che aveva contagiato anche noi figli. Vedo davanti agli occhi ancora il bel fiume Bug con l’acqua pulitissima e la campagna circostante dove facevamo escursioni durante la domenica in vacanza. Io e mio fratello facevamo parte della squadra polacca che si preparava ai Giochi olimpici di Tokyo del 1964. Nel frattempo, come ho detto, frequentavamo entrambi il politecnico a Varsavia e purtroppo abbiamo dovuto scegliere se accettare di fare l’esperienza accademica fuori dalla Polonia oppure le Olimpiadi. Abbiamo optato per l’architettura e il viaggio in Italia: da Torino a Palermo potemmo conoscere i luoghi che avevamo studiato sui libri, e che ora potevamo vedere di persona!».

Mentre la sua opera avanza, disegnando sempre con più precisione i contorni del mio ovale – Tadeusz parte sempre nei suoi ritratti dagli occhi –, gli chiedo un giudizio sull’arte contemporanea, non sempre facile da decifrare: «Un po’ malata – è la risposta secca –: la gente non sa cosa vuole, dove andare… si sono persi. Un esempio: Picasso era bravissimo, un capacissimo pittore, era molto virtuoso e competente, ma poi si è “perso”, perché altri l’hanno influenzato, dettando il suo stile: le forze esterne hanno inciso su di lui in nome del “progresso”». Interrogo l’artista dinanzi a me per comprendere se questa non sia una velata critica che ben si applica anche ai nostri tempi confusi: «Non si può non notare questo “stile” anche oggi – mi viene confidato – nei diversi comportamenti della gente che vuole evadere verso una libertà non precisata, tanto da distruggere la vera cultura e l’arte autentica».

Intanto il dipinto che mi raffigura ha preso forma definitiva; oramai manca solo la firma del suo autore. Mentre viene apposta anche una dedica, il discorso si sposta improvviso sull’architettura sacra che, in due millenni di storia, ha voluto esprimere il messaggio del Vangelo. Voglio capire dall’equilibrata saggezza dell’arch. Katner cosa dovrebbero esprimere le nuove chiese nella loro costruzione e cosa manca spesso. Glossa a margine (che confesso al mio sapiente interlocutore): non nego la mia personale difficoltà a intravedere il bello in svariati nuovi edifici di culto, forse perché nell’arte contemporanea – come sostiene Jacques Maritain in Creative Intuition in Art and Poetry – «la rivelazione della personalità ha completamente sostituito, in quanto ad importanza, la descrizione della bellezza esteriore». La risposta di Tadeusz – lapidaria, ma decisiva – mi aiuta a formulare una valutazione ancora più precisa: «Ci vorrebbe più sacralità in chi progetta e porta avanti il lavoro, evitando di ridurre tutto a solo “cubatura”». La critica racchiusa in una sola parola – “cubatura” – mi appare chiara, ma intuisco anche un afflato spirituale dell’uomo seduto di fronte a me: tutto d’un pezzo, serio e profondo, artista a pieno titolo.

Indago allora sulla sua fede, cercando di sapere quanto è importante Dio nel suo lavoro: «Ho grande rispetto in quello che faccio nella mia arte, lo stesso rispetto di quando sono davanti a Dio. Penso che lo studio e l’arte si debbano fare non per guadagnare soldi, perché il fine è altro, è “creare il meglio”, la “creazione del meglio”. In questo senso, ci vuole tanta forza spirituale, ma anche sanità di mente!».

Con garbo, ma anche con un poco di dispiacere il nostro lieto colloquiare si spegne per altri impegni che ci invitano pressanti a portarci altrove. Mi congedo, quindi, da Tadeusz Katner portando via un dipinto straordinario per come ha fotografato la mia anima, ma sopra ogni cosa con la consapevolezza di aver incontrato una persona speciale dallo sguardo puro e dalla forza spirituale invidiabile. E – ne sono persuaso – dai tratti interiori molto somiglianti a quelli del suo insigne connazionale Karol Wojtyła.


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