Dopo essermi assopito, mi risvegliai quasi di soprassalto a motivo di un improvviso scoppiettio proveniente dal camino dello stanzone che aveva visto all’opera uno tra gli scrittori più letti al mondo, tal Giovannino Guareschi. Il figlio Alberto mi aveva lasciato sonnecchiare sul divano, mentre lui era sceso nell’archivio a lavorare su sudate carte per mantenere viva la memoria del padre. Mi aveva proposto di stare là ad attendere, perché non si poteva mai sapere: avrei potuto realizzare il mio sogno di intervistare il papà di don Camillo. Come andò tutta la vicenda non lo so scrivere, sta di fatto che a un certo punto notai nella penombra due occhi fanciulleschi in una faccia gioviale dove sporgeva un nasone con sotto appiccicati due prepotenti baffi. Aveva cominciato a raccontarsi: «A titolo di semplice curiosità, Le dirò che sono nato a Fontanelle, un paese della Bassa parmense. Il fatto increscioso è avvenuto il 1° maggio del 1908 al primo piano della locale cooperativa socialista (non sono figlio di una cooperativa, però) e mia madre era maestra (insegnò per 49 anni) mentre mio padre si occupava di macchine agricole. Ho scarsi ricordi dei miei primi anni: ma sembra davvero che io fossi un personaggio molto riservato. Verso i sei anni, qualcuno però si accorse che ero nato e fu una scoperta sgradevole perché l’uomo mi colse mentre svaligiavo un susino del suo orto. Non comprese, il brav’uomo, che io, essendo nato in una rovente atmosfera socialista, non potevo possedere un concetto molto preciso della proprietà privata». Prese un attimo fiato per poi continuare: «Mi trasferii nella stendhaliana città di Parma, pur non accorgendomi che si trattava d’una città stendhaliana, e qui frequentai le prime quattro classi elementari imparando quel poco e approssimativo italiano che poi doveva permettermi di scrivere articoli di giornale e libri. Mio padre aveva stabilito che io diventassi ingegnere navale. Pertanto venni iscritto di prepotenza al locale Istituto Tecnico».
Interruppi per domandare se fosse stato uno studente modello: «Il primo anno mi riuscì perfetto. Infatti, mio padre non mi accompagnò in classe, ma mi abbandonò nel corridoio e io potei andarmene sul Lungo-Parma senza essere notato. Correva l’anno 1918 e io lo lasciai correre, anche perché era un anno difficile, tanto è vero che, il 4 novembre scoppiò la pace e incominciarono i guai. Allora, per tenere tranquillo il popolo lavoratore che non aveva la minima voglia di lavorare, avevano inventato quel che, mi pare, si chiamasse “a regìa”. Mi spiego: si assume un lavoratore, gli si consegna una carriola pregandolo di non andare a vendersela assieme al badile. Poi gli si fa caricare della terra o della ghiaia nel punto A e lo s’induce a portarla nel punto B. Qui lo si convince a riportarla nel punto A. Dopo una trentina di andata e ritorni, il lavoratore ha capito il meccanismo della faccenda e, caricata la ghiaia nel punto A, la porta nel punto B dove si siede e comincia a giocare a carte con gli amici. Poi gli viene sete e, siccome c’è lì, sempre tra i piedi, un ragazzino coi capelli alla bebè, lo manda a comprare vino e sigarette. Il ragazzino va, pure non essendo sul foglio-paga. In compenso i “mariden” (così erano chiamati quegli “scariolanti”) gli insegnano a fumare, a bestemmiare e lo informano diligentemente su particolarità molto interessanti. Durante quel primo anno d’Istituto Tecnico nessuno della scuola aveva fatto caso a me. Il fatto che io dovessi ripetere l’anno venne accettato pacificamente».
Intervenni curioso: poi cosa successe? «Il secondo anno mi andò male. Mio padre il primo giorno di scuola, mi portò fin dentro l’aula dove fui costretto a rimanere fino al termine della prima ora. Poi ritornai ai miei lavori nel greto del torrente: ma la dannata professoressa di lettere mi aveva notato e, non vedendomi più comparire nei giorni seguenti, incominciò a chiedere di me. Mi lasciarono finire l’anno e poi mi spedirono in collegio. Lì mi raparono a zero, mi introdussero a forza dentro una divisa e ricominciai da capo. Ginnasio, adesso. Mio padre aveva litigato con un ingegnere e si era accorto che gli ingegneri sono tutti dei cretini. Perciò aveva stabilito che dovessi diventare avvocato. Per la storia: diventai un “ginnasiotto” formidabile e con voti incredibilmente alti – merito della maturità cui mi avevano portato i compagni lavoratori nel greto del torrente Parma – arrivai alla fine della quinta classe come un trionfatore».
Una svolta notevole? «Sì, ed era stabilito che io frequentassi anche le tre classi del Liceo al Maria Luigia. Ma ciò non risultò possibile per una questioncella amministrativa: il Collegio, infatti, nella sua grettezza quasi medievale, non accettava il pagamento della retta in cambiali. Frequentai le tre classi di Liceo da esterno con la spesa complessiva di lire due al giorno: una lira di caffelatte e una pagnotta di pane da una lira per passare il mezzogiorno. In seconda liceo commisi una grave imprudenza: conobbi una ragazza “esterna” che, paga della sua licenza di terza elementare, si disinteressava completamente di cose scolastiche pure possedendo moltissime altre nozioni interessanti. Inoltre aveva vizi perversi come quello di fumare o di andare al cinema e, così, mi mangiava in fumo e fotogrammi pagnotta e caffelatte. Superato brillantemente a luglio l’esame di Stato, la famiglia, con la scusa che ero “maturo” mi tolse l’appannaggio delle due lire quotidiane. Allora mi iscrissi all’università e incominciai a lavorare per vivere. Così presi appunto il grave vizio di lavorare per vivere e non me ne sono mai liberato. Provai un’infinità di mestieri, ma non me ne riuscì bene nessuno e allora ripiegai sul giornalismo».
Quando arrivò il “posto fisso”? «Finito il servizio militare – dove arrivai a essere tenente e tenente sono ancora -, mi trasferii a Milano dove rimasi 25 anni. Riuscii a infilarmi in un settimanale umoristico chiamato Bertoldo. Per cause indipendenti dalla mia volontà, scoppiò la guerra mondiale. Venni arrestato nel 1942 dai fascisti per aver comunicato ciò che in quel momento pensavo di tutta la faccenda. Per salvarmi dal processo, mi fecero richiamare: l’8 settembre del 1943 fui catturato dai tedeschi a cui dissi che avevo deciso di continuare la guerra per conto mio e, così, mi trovai in un campo di concentramento in Polonia. Dicono i miei compagni di prigionia che mi comportai molto bene in quei 19 mesi. Può anche darsi. Quando fui liberato ero 46 chili compresi gli stracci che indossavo. Dopo sei mesi di attesa, grazie agli americani, potei tornare a casa dove trovai che una sconosciuta aveva occupato il mio letto: si chiamava Carlotta ed era nata due mesi dopo che ero stato catturato. Mi rimisi subito al lavoro: fondai assieme a Mosca e Mondaini il Candido. Incominciai a rompere seriamente le scatole alla gente e continuai imperterrito anche dopo aver ricevuto una condanna a 8 mesi di carcere per non aver trattato con sufficiente rispetto il Presidente della Repubblica. Poi inciampai contro un pezzo grosso e mi feci, nel Carcere San Francesco di Parma, tredici mesi di galera: e, a onor del vero, ricevetti un trattamento che solleticava molto il mio orgoglio perché mi vedevo considerato alla stregua dei più stimati professionisti in furti con scasso, violenze carnali, omicidi, eccetera. Trascorsi i miei sei mesi di libertà vigilata mi trasferii a Roncole dove ho abitato assieme ai miei due figli, Alberto e Carlotta, e alla mia unica ma sufficiente moglie. Fra una disgrazia e l’altra, ho scritto alcuni libri. Questi sono stati tradotti in tutte le lingue principali eccettuata la italiana ed è forse per questo che i critici italiani non hanno mai preso in considerazione i miei scritti. Ho scritto anche sceneggiature tratte dai miei libri e poi rovinate irrimediabilmente dal cinema».
Chiesi – come nelle migliori interviste – un ultimo aneddoto: «Ho condotto una vita molto semplice. Non mi piaceva viaggiare, non praticavo nessuno sport, non credevo nelle vitamine. In compenso ho sempre creduto in Dio. Sono stato profondamente grato ai miei genitori d’avermi messo al mondo. E gratissimo al Padreterno perché non m’ha fatto né peggiore né migliore di quello che sono stato. Io volevo essere esattamente così. Diverso mi sarei andato largo o stretto».
Ripenso ancor oggi a quello straordinario incontro. Ognuno potrà credere o meno se sia avvenuto davvero, ma nessuno può mettere in dubbio le risposte che mi sono state date, perché quelle sono certificate. Io rimango comunque convinto di aver visto, quantomeno in dormiveglia, l’anima di Giovannino Guareschi, lui che «non muore, neanche se lo ammazzano».
(Fonte foto: Facebook)
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