Sta a vedere che ha ragione Beppe Grillo. O meglio, ha torto, ma non del tutto. In ogni caso, l’intervento con il quale l’ex guru dei cinque stelle ha rilanciato dalle colonne del suo sito la proposta di “privatizzare il matrimonio”, a nostro avviso non è stato del tutto assurdo, né privo di un suo valore. Non si può dire che il suo discorso sia stato un capolavoro di logica e di conoscenza dell’argomento trattato. E poi, come insegna il Vangelo, se il tuo occhio non è puro allora è impossibile che lo sia tutto il resto. Questo però non toglie che Beppe Grillo, pur non avendo ragione, per una volta abbia avuto delle buone ragioni.
Se non altro, il comico genovese ha dimostrato la consapevolezza di un enorme problema epocale. Non è poco, e gliene va dato atto, se non altro perché, rispetto alla profonda crisi in cui oggi versa l’istituto del matrimonio, la maggior parte dei nostri politici, ma anche molti uomini di cultura e di religione, sembrano incapaci di prendere coscienza della realtà. Prendendo le mosse da “Nudge”, un saggio del 2008 di Richard Thaler e Cass Sunstein – due studiosi americani considerati come esponenti del cosiddetto “paternalismo libertario” – il nostro Grillo ha dunque rilanciato l’idea di togliere all’istituzione del matrimonio qualsiasi valore di diritto pubblico.
A suo dire, lo Stato dovrebbe rinunciare a celebrare i matrimoni, e soprattutto a far derivare da essi delle conseguenze vincolanti nei confronti dell’intera collettività. Le persone che vogliono sposarsi se la dovrebbero vedere tra di loro, attraverso semplici accordi privati, da regolamentare come meglio credono. Lo Stato, invece, dovrebbe limitarsi a garantire alle coppie di sposi “un contratto di associazione domestica”. A detta del Grillo parlante, il matrimonio diventerebbe così “un affare strettamente privato, celebrato da organizzazioni religiose o di altro tipo”.
In questo modo, secondo lui, “una chiesa potrebbe decidere di unire in matrimonio soltanto i propri membri, e un club di sommozzatori potrebbe decidere di limitare le proprie cerimonie a chi possiede un brevetto da sub”. L’obiettivo perseguito sarebbe quello di consentire alle coppie di nubendi di “scegliere l’organizzazione celebrante più adatta alle proprie esigenze e ai propri desideri”, fermo restando che “lo stato non sarebbe tenuto a legittimare nessuna relazione in particolare, conferendole l’appellativo di matrimonio”.
Diciamo subito che, così come è stata descritta, si tratta di una proposta inattuabile, perché parte da una profonda inconsapevolezza sia della natura che della struttura giuridica del matrimonio. Tuttavia, è comprensibile che un’idea del genere abbia entusiasmato il comico genovese. Essa, infatti, appare a prima vista libertaria e antistatalista, e pertanto in linea con lo spirito dei nostri tempi. Tra l’altro, si tratta di una proposta che viene incontro ai desideri di chi vorrebbe eliminare qualsiasi differenza tra il matrimonio e le unioni civili tra omosessuali. Eppure, tanto per cominciare, sono sbagliate le premesse culturali del ragionamento grillesco.
La valenza pubblica del matrimonio, infatti, non è il residuo di una tradizione ormai superata. Nemmeno, si è mai trattato di un’imposizione del potente di turno, per controllare la vita dei cittadini. Al contrario, il fatto di essere un affare della collettività, e non soltanto degli sposi, fa parte dell’essenza stessa del matrimonio. Quest’ultimo – come fece notare il grande antropologo Claude Lévi-Strauss – è sempre esistito sotto forma di istituto di diritto pubblico presso tutte le civiltà umane, in ogni tempo e ad ogni latitudine.
Per dirla con la nostra Costituzione repubblicana (art. 29), il matrimonio è il fondamento della “società naturale” della famiglia, che l’autorità costituita (non necessariamente lo Stato, visto che fino all’Ottocento il compito spettava alla Chiesa) non può esimersi dal riconoscere e disciplinare. Ciò in quanto i suoi fini sono essenzialmente di interesse pubblico, che non è limitato agli sposi e ai loro figli, ma coinvolge tutta la comunità. Il matrimonio, infatti, serve a garantire non soltanto la certezza legale della paternità, ma anche e soprattutto il fatto che ciascun componente della famiglia possa conoscere e vedersi garantito il proprio posto nel mondo.
Ad ognuno il suo: la stessa parola matrimonio deriva dal latino matri munus, cioè compito, ma anche protezione, della madre; così come, fateci caso, la parola patrimonio indica il munus patri, cioè il compito del padre.Dall’istituzione matrimoniale deriva la responsabilità del capofamiglia di presentare i propri figli alla collettività, assumendosi non soltanto l’onere del loro mantenimento, ma anche il compito della loro educazione al rispetto delle norme del vivere civile. Nello stesso tempo, mediante il matrimonio la madre acquisisce il diritto alla protezione maritale, e allo status di moglie. Oggi le donne non sembrano più sentire il bisogno di questa protezione o, meglio, non vogliono più ammettere di desiderarla. Tuttavia, prima della rivoluzione sessuale degli anni Settanta non nascondevano di tenerci moltissimo. Non solo per ragioni economiche ma anche culturali.
I figli, dal canto loro, mediante il matrimonio dei genitori tuttora dovrebbero acquisire non soltanto diritti sul patrimonio di questi ultimi, ma anche il diritto-dovere a essere educati come futuri cittadini, con tutte le responsabilità che questo dovrebbe comportare. Certo, a differenza di quel che sostiene Beppe Grillo, non ci si sposa per concessione dello Stato. E nemmeno di alcuna altra autorità. Non è mai stato così, né nel diritto romano, né in quello di qualsiasi altro ordinamento. Non a caso, i canonisti cattolici ricordano che il matrimonio è il “sacramento primordiale”, perché è sempre esistito anche prima dell’avvento del cristianesimo, e a differenza degli altri sei sacramenti i suoi ministri non sono i sacerdoti, bensì gli sposi stessi. Poi, è vero che da sempre sono esistite delle pressioni familiari, e culturali, per cui molti matrimoni sono stati condizionati da circostanze esterne.
Ancora oggi, come purtroppo apprendiamo dalle cronache, esistono matrimoni combinati dalle famiglie di origine, così come, ad esempio, ci sono matrimoni imposti da ragioni economiche, se non proprio, come avveniva per gli antichi sovrani, dalla ragion di Stato. Tanto è vero che la Chiesa cattolica, nella sua esperienza storica, ha sempre fatto moltissimo per salvaguardare la libertà dei nubendi, e con essa soprattutto la dignità della donna. Ma in linea di principio, nessun ordinamento giuridico ha mai derogato al principio per cui ci si sposa soltanto se gli interessati lo vogliono.
Si dirà che queste concezioni appartengono ad un tempo ormai passato. Ma è proprio per questo che il ragionamento di Beppe Grillo, pur fallace nelle sue premesse, ha colto l’essenza del grande problema della nostra epoca. Infatti, se oggi il matrimonio è tanto in crisi, e i giovani preferiscono non sposarsi nemmeno, questo dipende essenzialmente dal fatto che a questo riguardo lo Stato ha abdicato completamente ai suoi compiti. Dagli anni Settanta in poi, nel mondo occidentale, le leggi e la giurisprudenza che hanno portato al divorzio di massa hanno fatto sì che gli obblighi reciproci che gli sposi dovrebbero assumersi mediante le nozze non siano più garantiti in alcun modo.
Tra l’altro, nel moderno diritto matrimoniale non esiste più la figura del capofamiglia, che possa imporre le sue decisioni. Sono ormai stati completamente superati i tempi nei quali un giurista di rango come Piero Calamandrei, benché di ispirazione indiscutibilmente laica, poteva dire in piena Assemblea Costituente – senza per questo ritrovarsi sbranato vivo dalla stampa e costretto alle dimissioni, ma anzi venendo applaudito anche dai suoi colleghi di sinistra – che “la diseguaglianza giuridica dei coniugi nella famiglia è una esigenza di quella unità della famiglia… che, per poter vivere, ha bisogno di essere rappresentata e diretta da una sola persona”.
Al giorno d’oggi, gli unici soggetti che ancora possono vantare diritti nei confronti del matrimonio sono i coniugi economicamente più deboli. Beninteso, anche i figli continuano a essere garantiti nei confronti dei genitori, ma non in virtù del matrimonio, bensì per Il fatto stesso di essere tali. Tant’è che nel moderno diritto di famiglia non esistono più differenze di status per i cosiddetti figli legittimi rispetto a quelli naturali.
Questo spiega perché così tanti giovani, particolarmente quelli che prevedono di doversi assumere con il proprio lavoro, o con la loro posizione patrimoniale, gli obblighi di “capifamiglia di fatto”, non abbiano più nessuna voglia di accedere al matrimonio. Si tratta infatti di un’istituzione dalla quale ormai derivano soltanto obblighi per il coniuge più forte economicamente. Tutto questo mentre i correlativi impegni che entrambi gli sposi dovrebbero assumersi nei confronti dell’altro non sono più riconosciuti e tutelati dalla legge, dal momento che ciascuno può sottrarvisi in qualsiasi momento.
Per questi motivi, Beppe Grillo, anche se forse non se ne è reso conto, con la sua idea apparentemente un po’ balzana è venuto incontro a un’esigenza reale. Se oggigiorno chi si sposa non può più vedere riconosciuto il proprio impegno sulla base dell’istituto del matrimonio di per sé stesso, con le nozze “privatizzate” almeno potrebbe contare sulla tutela che lo Stato dovrebbe accordare ai contratti tra privati. Pacta sunt servanda, i patti vanno rispettati, è infatti un principio fondamentale e imprescindibile di ogni ordinamento giuridico degno di questo nome. Solo rispetto al matrimonio – caso unico in tutto il diritto civile – esso è stato destituito del suo fondamento.
Negli Stati Uniti, un Paese dove per tradizione costituzionale l’autorità statale può facilmente venire messa in discussione in nome delle libertà individuali, ci sono alcuni stati federali dove si è preso atto della situazione. Anche se non nella forma estrema ipotizzata dai due studiosi libertari citati da Grillo, in essi è stata introdotta la possibilità di scelta tra diverse forme di matrimonio. Le nozze – anche quelle celebrate presso le autorità civili e non di fronte a ministri di culto – in questi stati possono avere conseguenze diverse, più o meno vincolanti, a seconda della intenzione degli sposi e degli obblighi che essi vogliono consapevolmente assumersi.
È il cosiddetto covenant-marriage, cioè matrimonio-alleanza, mediante il quale gli sposi al momento delle nozze si impegnano, in caso di futura crisi, a non divorziare senza condizioni, bensì a sottoporsi preventivamente ad un periodo di mediazione familiare finalizzato a salvare la loro unione, soprattutto nell’interesse dei figli. Nello stesso tempo, secondo la tradizione anglosassone, tra i coniugi possono essere stipulati contratti prematrimoniali, riconosciuti e tutelati dalla legge, mediante i quali gli interessati possono regolare in piena autonomia i propri reciproci rapporti economici. In questi casi, all’autorità statale interessa solamente che siano tutelati i diritti dei figli e la libertà individuale, ma per il resto gli accordi tra i due sposi, con le correlative prestazioni personali, vengono realmente garantiti come in qualsiasi altro contratto.
Forse è questo ciò a cui pensava Grillo, e gli va riconosciuto che simili soluzioni potrebbero effettivamente avere una loro efficacia per fare sopravvivere il matrimonio, come fondamento della famiglia. Va detto che a oggi il covenant-marriage è stato riconosciuto per legge soltanto in tre stati dell’Unione nordamericana: Louisiana (il primo ad introdurlo nel 1997), Arizona e Arkansas. Perché tanti altri stati federali non hanno ancora adottato questa soluzione, apparentemente efficace e rispettosa della libertà degli sposi? Difficile dare una risposta certa, ma si può facilmente intuire che, nonostante la facilità con la quale oggi si può divorziare, esistono ancora delle lobby culturali che pretendono che il matrimonio garantisca soltanto i diritti economici della parte che si presume più debole. Non a caso, infatti, la cultura woke e politicamente corretta vede questa forma di matrimonio come il fumo negli occhi.
Ma è proprio per questo che coloro che, ancora oggi, dovrebbero acquisire nei fatti il ruolo di capofamiglia preferiscono non sposarsi. Molto semplicemente – anzi, banalmente, come direbbe Giorgia Meloni – essi vogliono evitare di assumersi degli obblighi ai quali non corrisponderebbero né il diritto a non essere abbandonati, né quello a non essere sfruttati. Tutto questo mentre le controparti più deboli non trovano più nel matrimonio una efficace garanzia per conservare il proprio status sociale ed economico. È per tali motivi che la proposta dei due studiosi americani, rilanciata da Beppe Grillo, potrebbe anche essere apprezzabile, per rilanciare un’istituzione altrimenti irreversibilmente in crisi. A patto che non si pretenda di eliminare completamente quelle conseguenze di diritto pubblico che ancora oggi un matrimonio, per avere senso, deve garantire nell’interesse della collettività.
Nell’epoca dell’amore liquido e del primato del divorzio, ci sarebbe più che mai bisogno di restituire dignità al matrimonio. Esso, infatti, come si è visto, non è un residuo del passato “patriarcale”, bensì un’esigenza fondamentale della società. I drammi della denatalità, dei femminicidi, dei malesseri psichici delle persone sole, dell’impoverimento collettivo di una società basata sugli egoismi individuali (che peraltro rispondono agli interessi di un’economia fondata sulla produzione e sul consumo), sono tutte conseguenze della crisi della famiglia fondata sul matrimonio.
Prima se ne prenderà atto e meglio sarà. È urgente superare i miti ideologici degli anni Settanta che hanno fallito completamente i loro propositi di liberazione individuale – soprattutto delle donne – e al contrario hanno determinato generazioni di individui soli, depressi e impoveriti. Per questo, in un mare di ipocrisia e malafede, per risvegliare le coscienze e tornare alla verità non sono da buttar via nemmeno gli sproloqui di un Grillo parlante.
(Fonte foto: Imagoeconomica/Pexels.com)
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