L’attacco attribuito agli Houti dello Yemen ai cavi che collegano Internet tra Asia e Europa è una specie di risveglio. Perché ci ricorda che il web non è nell’aria, non è nel cloud, ma passa attraverso cavi fisici che attraversano anche il Mar Rosso, e se si tagliano questi cavi ecco che il 25% del traffico internet tra due continenti è a rischio.
Infrastrutture, ecco cosa c’è dietro internet. Kilometri di cavi, ettari di server e computer, antenne a centinaia di migliaia, realtà molto poco virtuali che sono come le autostrade con il casello: si paga per entrare, come sappiamo. E internet sarà anche un passo avanti per l’umanità, ma certamente è un passo avanti nel conto in banca di chi gestisce innanzitutto infrastrutture decisamente hardware e poco software.
Oltre ai cavi sotto ai mari (si dice che il 90% del traffico web si muove per mare), quasi tutti di proprietà delle grandi corporation come Meta, Google, Microsoft e Amazon, principali investitori in nuovi cavi, ci sono i data center. Questi ultimi sono luoghi fisici che ospitano un’infrastruttura di elaborazione (server), di archiviazione (storage) e connessione (networking), quelli più grossi, definiti Data Center hyperscale sono circa 500 nel mondo e sono tutti delle corporation già citate, ma sul pianeta i data center sono stimati essere circa 8 milioni. Di queste strutture si sa poco, anche perché c’è poco interesse a farle conoscere: basti pensare che quelle hyperscale devono spesso dotarsi di una centrale elettrica ad hoc per poter funzionare.
C’è un primo elemento su cui riflettere. Come scrive la rivista Il Mulino, «è vero che aver spostato in cloud infrastrutture, piattaforme, software – diventati servizi fruibili in remoto e in modo scalabile – ha consentito a chiunque di realizzare, in economicità e sicurezza, applicazioni digitali altrimenti impensabili senza cospicui investimenti iniziali e di gestione», ma – ed è questo il punto – «proprio questa dipendenza da infrastrutture globali – e private – comporta la paradossale difficoltà a quantificare l’effetto delle azioni digitali». Oltre all’evidente fatto di essersi consegnati mani e piedi a poche corporation private, c’è appunto il lato ambientale, che ha tanti zelanti difensori, che però quando si tratta di digital diventano un po’ meno zelanti.
L’impatto del digitale sulla produzione di gas serra dal 2016 al 2040 dovrebbe passare dall’1,6% al 14%, rappresentando più della metà dell’attuale contributo relativo dell’intero settore dei trasporti. Secondo gli studi del Global Carbon Project, nel 2020 Internet è stato il quarto Paese al mondo per emissioni di CO2.
Da uno studio di Bankless Times, 1 minuto di presenza su TikTok produce 2,63 grammi di CO2, mentre Instagram arriva all’1,05 e Facebook allo 0,79. Si dice che Facebook e TikTok inquinano come tutta la popolazione di Londra che volesse fare un viaggio di andata e ritorno a New York. Secondo Karma Metrix le 5 aziende Big Tech (Amazon, Google, Apple, Meta e Microsoft) consumano più energia di Belgio e Romania.
E poi c’è il consumo di acqua. I data center infatti per il loro raffreddamento sono costretti a consumare enormi quantità di acqua, con un impatto che può essere pesantissimo specialmente se il data center si trova in zone siccitose.
Così il modernissimo digital inquina, con buona pace degli esperti green che ci vorrebbero sempre connessi, dallo smart working alla didattica a distanza, dall’e-commerce all’home banking, dalla video conferenza con gli amici all’intrattenimento. Ma soprattutto queste infrastrutture che fanno andare la rete hanno dei padroni. Realtà private, con interessi privati e che orientano non solo i consumi, ma anche i pensieri e il modo di vivere di tutto il mondo. Non sarà un post a salvarci dal pensiero unico e dal neocapitalismo di Big tech, e questo gli Houti, in malo modo, lo sanno.
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