Pubblichiamo un ampio stralcio dell’omelia pronunciata oggi, 1 gennaio 2024, dal Patriarca di Gerusalemme cardinale Pierbattista Pizzaballa (fonte).
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Carissimi Fratelli e sorelle,
il Signore vi dia pace!
Sono solito iniziare le mie omelie e i miei discorsi con questo saluto, che sembra più ormai una formalità, una cosa che si dice senza pensarci molto, e forse anche senza crederci più di tanto. Eppure, quel saluto dice una grande verità, cioè che la pace viene da Lui, dal Signore Gesù, che essa è espressione della sua bontà. Non è questo il momento né la sede per entrare in giudizi e valutazioni sulla situazione che stiamo vivendo. Ne abbiamo già ascoltati abbastanza. Non cambieranno il corso degli eventi, e ci lasceranno come prima. Qui, oggi, dobbiamo e vogliamo rivolgere il nostro sguardo a Cristo e da Lui attingere la forza necessaria per rinsaldare la fiducia, ferita da tanto dolore.
Cristo è la nostra pace. Lo sappiamo e lo crediamo. E crediamo che con il Natale è iniziato un nuovo modo di vivere le vicende umane. Ce lo diciamo continuamente in questi giorni. Eppure, quanto stiamo vivendo sembra dirci che ciò che crediamo e affermiamo, è lontano da ciò che realmente sperimentiamo. Come ho già ripetuto forse anche troppe volte, tutto oggi parla di divisione, odio, rancore, sfiducia.
Dobbiamo riconoscerlo, la guerra e il suo contesto, è purtroppo l’ambiente naturale dell’umano. Da Caino e Abele, l’uomo non è mai stato esente da sentimenti di gelosia, di paura, di ansia di potere, di rivalsa, di vendetta e di possesso. La guerra, personale o pubblica che sia, è ciò che da espressione a quei sentimenti negativi, all’incapacità di risolvere i conflitti senza necessariamente prevaricare, senza violenza. Dagli inizi della storia, fino ad oggi, insomma, l’uomo è posto di fronte alla libera e responsabile decisione di come relazionarsi all’altro, di come e su cosa costruire la sua esistenza. E spesso, riconosciamolo, al centro della propria esistenza non c’è la legge di Dio. Senza Dio o, peggio, quando si usa Dio per giustificare scelte di potere di qualunque tipo, il mondo è facilmente in balìa di chi vuole dividere e distruggere.
Ma se è vero che il cuore dell’uomo è inclinato al male e alla violenza, è anche vero, tuttavia, che in esso sussiste anche un desiderio di pace e di vita, che anch’esso attende di trovare espressione.
La nascita di Cristo, dunque, non ha cancellato il male, ma ha dato espressione e ha reso visibile una volta per tutte quel desiderio di pace e di vita che sussiste nel nostro cuore e nel cuore di ogni uomo. San Bernardo, in uno dei suoi discorsi, che abbiamo letto qualche giorno fa, dice: “Fino a quando dite: Pace, pace, e pace non c’è? Ma ora … la testimonianza di Dio è diventata pienamente credibile (cfr. Sal 92,5). Ecco la pace: non promessa, ma inviata; non differita, ma donata; non profetata, ma presente”.
Gesù non ha risolto alcuno dei problemi sociali e politici del suo tempo, ma ha indicato una via, che ancora oggi è la strada maestra per chi vuole costruire contesti di pace, anche qui, oggi, nel tormentato e conflittuale Medio Oriente: l’incontro. Promuovere, ricercare, costruire, custodire il desiderio di incontro. In fondo, se ci pensiamo bene, vuol dire vivere seriamente il Vangelo, e assumerlo come criterio fondamentale per le scelte di vita.
Il serio desiderio di incontro comporta necessariamente dare fiducia, accettare di fare posto ad un’altra voce oltre che alla propria. Non di rado richiede anche di rinunciare o mettere da parte qualcosa di proprio, una visione, un’opinione, un’attesa…
In questi nostri contesti di conflitto quasi permanente, dove la religione, la politica, l’identità nazionale si mischiano continuamente, creando così un ginepraio quasi inestricabile, incontrarsi richiede coraggio e pazzia. Di generazione in generazione, infatti, narrative diverse e opposte le une alle altre alimentano il sospetto e la sfiducia reciproca tra gli abitanti di questa Terra, e coltivano nella coscienza di tanti lo spirito di conquista, di violenza, di disprezzo per chi è diverso da sé. Sono narrative che inquinano il cuore di tanti, che a causa di tutto ciò faticano a comprendere ogni possibile proposta di incontro, e confondono sempre più spesso la pace con la vittoria. È un equivoco che ricorre spesso, forse non solo in Medio Oriente.
La pace, dunque, quella vera, quella costruita su un sincero desiderio di incontro, di accoglienza e di fraternità, richiede necessariamente anche un cammino di conversione. Si tratta prima di tutto di cambiare il proprio modo di pensare, di liberare il cuore dallo spirito di violenza, di conquista e di rivalsa. Abbiamo tutti bisogno di conversione, di purificare il nostro modo di guardare le vicende della vita, di costruire contesti di bellezza. Non c’è pace senza conversione. Non possiamo vivere e parlare di pace, se il nostro cuore non è rivolto a Dio, se la nostra vita non è veramente abitata dalla sua presenza, se non sentiamo il bisogno di chiedere, giorno dopo giorno, il suo perdono. Se non siamo capaci di gesti di tenerezza e di fiducia.
La pace esige anche che si faccia verità nelle relazioni, che si arrivi a riconoscere il male compiuto e subito, cosa mai facile e sempre dolorosa. Fare la verità, assumersi la responsabilità dei mali e dei torti subito o a volte commessi, non è mai scontato e richiede grande coraggio e un amore sincero. La verità, tuttavia, diventa completa quando incontra anche il perdono. Sono necessari l’uno all’altra. Una verità che non è illuminata dal desiderio di perdono, rischia di diventare recriminazione, occasione di scontro e di solitudine.
L’uomo da solo non è in grado di vivere a questa altezza, non è in grado di innalzarsi a questo modello di vita. È una grazia, è un dono, che riceviamo dall’alto. Perché “se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio” (Gv 3,3) Per questo siamo qui oggi, per chiedere la grazia di questo dono, per chiedere a Dio di renderci capaci questo sguardo, di non abbandonarci alle nostre paure, in balia di pensieri di morte e dei suoi pungiglioni (1Cor15,55).
Sono sempre più convinto che in questo contesto così complesso, la vocazione e la missione principale della piccola comunità cristiana sia proprio questa: custodire il desiderio di incontro, coltivare la libertà nei confronti di tutti, superare i confini etnici, religiosi e identitari di vario genere che, pur non scritti, sono comunque rigidissimamente scritti nella coscienza di questi nostri popoli. Non si tratta di cancellare le proprie appartenenze, che sono invece buone e necessarie, una base solida sulla quale costruire la vita comune. Ma di non renderle solamente delle fortezze inespugnabili, baluardi inaccessibili, presidi da difendere.
Sono tanti gli uomini e le donne di ogni fede che ancora oggi, anche qui in questa Terra martoriata, sono capaci di questa testimonianza. Ma ci serve anche la testimonianza di una comunità, che sappia vivere, al suo interno innanzitutto, e in contesti aperti e condivisi, questa libertà. E la nostra piccola comunità cristiana potrebbe fare questa differenza. È il mio sogno ed è la pazzia che vorrei condividere con tutta questa piccola e amata chiesa di Gerusalemme. (…)
*Patriarca latino di Gerusalemme
(Foto Ansa)
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