In un tempo in cui gli intellettuali cattolici sembrano essere sempre meno – o, se ci sono, faticano a far sentire la loro voce -, George Weigel rappresenta invece una certezza. Classe 1951, lo scrittore americano non ha difatti bisogno di presentazioni, perché ha scritto molti libri di successo (su tutti Witness to Hope, biografia di successo di papa Giovanni Paolo II), perché ha alle spalle decine di riconoscimenti (19 lauree honoris causa, la Croce pro Ecclesia et Pontifice e tanto altro) e perché, da tempo, ogni sua opera diventa ormai un caso editoriale. Tale, in effetti, pure To Sanctify the World: The Vital Legacy of Vatican II, la sua ultima fatica sul Concilio Vaticano II e sulla sua eredità.
Ed è proprio a proposito di questo libro che, su Religión en Libertad, Pablo Cervera Barranco gli ha fatto una bella intervista, nell’ambito della quale l’intellettuale statunitense ha detto la sua su vari argomenti. Soprattutto, va da sé, su quel Concilio Vaticano II che, a suo dire, è stato realizzato «solo al 60%. Quindi non c’è bisogno di un Vaticano III». Ma Weigel si è espresso – per la verità in modo anche piuttosto netto, per non dire duro – sul Sinodo sulla Sinodalità, apostrofandolo come una sorta di «chiacchierare globale su ciò che le persone trovano di sbagliato nella Chiesa. Sarebbe bene recuperare il cristocentrismo – la centralità di Cristo – del Vaticano II. La missione della Chiesa è predicare e testimoniare Cristo, non sé stessa».
In effetti, che un simile rischio sia reale lo ha confermato, ripreso ieri dal Timone, anche mons. Stanislaw Gadecki, l’arcivescovo a capo della Conferenza episcopale polacca, il quale, parlando dei lavori sinodali ha segnalato come «tutti» siano «stati invitati a partecipare, indipendentemente dal loro atteggiamento nei confronti della fede e della Chiesa cattolica. Come risultato di questo approccio, a volte la voce “non cattolica” era più udibile di quella “cattolica”. Tuttavia, non è questo il che significa cercare la volontà di Dio». Sono anche queste, si converrà, valutazioni non esattamente leggere, per di più se scandite da una personalità come Gadecki. Ma torniamo a George Weigel.
Sì, perché nella sua intervista a Religión en Libertad l’intellettuale ha condiviso anche un’altra valutazione decisamente forte, distinguendo tra «parti vive» e «parti morenti» della Chiesa e facendo presente senza mezzi termini come siano queste ultime quelle «quelle che continuano a sostenere erroneamente che il Vaticano II è stato chiamato a reinventare il Cattolicesimo secondo lo spirito dell’epoca». Ma, ha concluso ancora Weigel, «la Chiesa è chiamata a convertire la cultura, non a imitarla». Anche qui, parole di una certa saggezza. Soprattutto, parole accompagnate da numeri e fatti difficilmente contestabili. Come infatti avevamo scritto esattamente un anno fa sulla nostra rivista (qui per abbonarsi), le statistiche sono chiare: è il progressismo ecclesiale ad essere sulla via del tramonto.
Come se non bastasse, proprio in questi giorni è uscito un nuovo maxi studio – cui il Timone ha dato abbondante spazio – che in, buona sostanza, dice questo: negli Stati Uniti i sacerdoti progressisti sono sempre meno. Quasi estinti, a dire il vero. E si dà il caso che non si tratti di una rilevazione isolata, giacché anche un’indagine condotta dal sociologo Mark Regnerus, autore di un interessante contributo uscito in esclusiva sulla nostra rivista, aveva in sostanza portato allo stesso esito. Insomma, George Weigel ha ragione quando dice che «sono le parti morenti della Chiesa a voler reinventare il cattolicesimo». Soprattutto, è vero che quelle parti sono effettivamente «morenti». Magari potenti, eh, ed oggi ben radicate nell’attuale establishment ecclesiastico. Ma di fatto senza futuro. (Fonte foto: screenshot, Acton Institute, YouTube)
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