Erik Varden è vescovo-prelato della Prelatura territoriale di Trondheim (Norvegia). Nel 2019, Papa Francesco lo ha nominato prelato territoriale di Trondheim e l’anno successivo ha ricevuto l’ordinazione episcopale nella cattedrale di Nidaros: è il primo norvegese nativo ad essere vescovo a Trondheim nei tempi moderni. Ha offerto una interessante riflessione sulla rivista statunitense First Things di cui pubblichiamo uno stralcio in una nostra traduzione di lavoro.
[…] Essere un cristiano, un cattolico oggi è una sfida. Non ci sono due modi per farlo. Guardandoci attorno possiamo essere tentati di esclamare con un Salmo: “O Dio, le genti sono entrate nella tua eredità; hanno profanato il tuo santo tempio; hanno ridotto in rovina Gerusalemme” (Salmo 79,1). Essere un pagano significa essere qualcuno che non crede veramente, per quanto possa portare con sé i simboli della fede.
Viviamo con le ferite degli abusi, riguardo ai quali tutti speravamo che riguardassero solo i nostri vicini, non noi. Le nostre comunità si stanno restringendo. La domanda angosciosa: “Quanto tempo ancora?”, si presenta in contesti che a memoria d’uomo sembravano incrollabili. La fiducia è stata tradita. I profeti della desolazione abbondano.
Lo spirito di divisione, diffuso nella società, alza la sua brutta testa anche nella Chiesa. C’è una tristezza particolare in giro.
Eppure, questo è il giorno – e la notte – che il Signore ci ha fatto e affidato perché sia per noi un tempo di salvezza. Come possiamo, in un tempo simile, vivere la nostra vocazione alla santità?
Innanzitutto portando, in unione con l’Agnello di Dio, la nostra parte del peso del peccato del mondo, un peccato non riducibile semplicemente ad atti empi.
Questo peccato non è altro che un senso di smarrimento mondano che esprime caoticamente un dolore che tende alla disperazione, spesso privo di oggetto e per questo particolarmente temibile. L’Agnello di Dio “ toglie i peccati del mondo ” non schioccando le dita come un mago, ma sopportandolo. Siamo chiamati a vivere come membra del suo Corpo.
I fedeli che, con Nicodemo, sono chiamati a preferire ad ogni costo la luce alle tenebre (cfr Gv 3,18-21) devono essere pronti a portare sinodalmente il peso della notte che spetta ormai a molti.
Ciò presuppone la disponibilità a restare dentro quella notte, lì pregando, lì amando e servendo, riconoscendo lentamente, anche se da lontano, la luce che nessuna oscurità può vincere (cfr Gv 1,5).
Leggendo e rileggendo le fonti del monachesimo, le grandi Vite (di Antonio , Ipazio e altri) che, prima che fossero scritte le Regole, indicavano il cammino verso la vita, mi colpisce il ricorrere del topos della compassione, intesa concretamente come disponibilità a “ soffrire”.
Questo è sicuramente un aspetto chiave dell’esperienza sinodale: la partecipazione, attraverso la pazienza, alla passione redentrice di Cristo. È questo il momento per riflettere su ciò di cui Paolo parla sottovoce ai Colossesi: «Completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo, che è la Chiesa» (1,24). […]
Trovo immenso conforto nella confessione di una monaca benedettina del secolo scorso, suor Elisabeth Paule Labat, che conosceva intimamente le vicissitudini e i traumi della vita pur rimanendo radicata nella grazia liberante e trasformante della Croce. Ha articolato la sua intuizione matura così:
«[Crescendo in saggezza] l’uomo percepirà la storia di questo mondo nella cui battaglia è ancora impegnato come un’immensa sinfonia che risolve una dissonanza in un’altra fino all’intonazione dell’accordo maggiore perfetto della cadenza finale alla fine dei tempi. Ogni essere, ogni cosa concorre all’unità di quella composizione intelligibile, che può essere ascoltata solo dal di dentro: il peccato, la morte, il dolore, il pentimento, l’innocenza, la preghiera, le gioie più discrete e più eccelse della fede, della speranza e dell’amore; un’infinità di temi, umani e divini, si incontrano, fuggono e si intrecciano per poi fondersi finalmente in un disegno maestro che non è altro che la volontà del Padre, perseguendo in ogni cosa la realizzazione infallibile dei suoi disegni».
La santità è una categoria essenziale, non un’etichetta apposta a sigillo di una condotta impeccabile. La santità è ciò che è essenzialmente divino, categoricamente diverso da qualsiasi qualità, anche la più bella, esistente nella creazione. La via verso la santità è illuminata dalla luce increata. Dobbiamo essere cambiati per percepirlo. I nostri occhi, i nostri cuori e i nostri sensi devono essere aperti; dobbiamo uscire dai nostri limiti, entrare in una dimensione di verità che è di Dio.
La sinodalità che va in questa direzione, configurandoci al nostro Signore crocifisso e risorto, è vivificante, profumata del dolce profumo di Cristo Gesù (cfr 2 Cor 2,15). La sinodalità, invece, che ci rinchiude in desideri e previsioni limitate, riducendo il disegno di Dio alla nostra misura, deve essere trattata con grande cautela.
*Vescovo della Prelatura territoriale di Trondheim (Norvegia)
(Fonte foto: Ordine dei Cistercensi)
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