Coniato nel milanese, “maranza” fa riferimento a una categoria ben identificata di ragazzi. Il termine sembra arrivare dagli anni Ottanta, quando i paninari si riferivano in milanese ai piccoli ladruncoli, mettendo insieme le parole “zanza” e “marocchino”. Da qualche alta parte sono detti “coatti” o “zarri”, ma sempre della stessa cosa si parla. Bande di adolescenti di periferia – le temute baby gang spesso composte da nordafricani della prima o seconda generazione, ma anche slavi, sudamericani e italiani -, si rendono protagoniste di furti, aggressioni e rapine. Sono facilmente riconoscibili dalle tute acetate e rigorosamente firmate, marsupio griffato a tracolla sul petto, occhialoni da ciclista, capelli rasati ai lati con riccioli sulla fronte, scarpe Nike o ciabattoni con calzini a contrasto. Musica trap a palla dalle casse Bluetooth e via a comandare le notti milanesi, soprattutto sui Navigli, Corso Como, Porta Garibaldi e nei pressi dell’Arco della Pace.
Il loro identikit è ormai noto alla polizia, sono sempre giovanissimi e possono rappresentare l’incubo di baristi, negozianti e anche dei loro coetanei. Le denunce riportano sempre la stessa sequenza: un gruppo di ragazzini nordafricani circonda la preda partendo dalla richiesta di una sigaretta per poi aggredirla con calci e pugni prima di scappare con cellulare, portafoglio o catenina d’oro. TikTok è il loro mezzo di comunicazione preferito. E che dovranno mai comunicare? A prima vista, il proprio orgoglio magrebino. A un’occhiata più attenta non sfugge una buona dose di disagio, ignorato dalle pagine del Corriere e di Vogue che hanno trattato il fenomeno a partire da un’attenta analisi del «maranza-style». Sembra sia solo un trend, espressione di una nuova «subcultura urbana».
O meglio, si è parlato di «storie di disagio economico e sociale alle spalle» o di «microcriminalità» – che poi “micro” vallo a dire al 19enne ucraino Danilo Shydlovskyi che li ha incontrati a Porta Garibaldi e si è ritrovato la faccia sfregiata da fronte a mento. Si è poi parlato di quanto il termine nasconda «un certo razzismo» o di quanto prediligere la lingua araba tra di loro sia «un’aspetto che crea ulteriore ghettizzazione». Vogue sfiora quasi il poetico quando li descrive come «il simbolo di un’epoca che li vede cercare il proprio posto nel mondo come modelli che ogni giorno sfilano nelle strade come se fossero passerelle, vogliono essere osservati, ripresi, imitati. È così che nasce un movimento, una subcultura, in modo di esprimersi collettivo che nell’unione trova la sua forza».
Noi all’edulcorazione e al trend preferiamo la realtà e allora è proprio di disagio che vogliamo parlare. Riprendiamo uno studio americano dell’Institute for Family Studies che però si adatta benissimo anche alla situazione italiana-europea. Scriveva il sociologo David Popenoe in Life Without Father «questa massiccia erosione della paternità contribuisce notevolmente a molti dei principali problemi sociali del nostro tempo». Scritto nel 1996 e valido ancora oggi. In America le famiglie divise e l’aumento dell’assenza del padre rimangono al centro dei maggiori problemi che la nazione deve affrontare, dalla criminalità e violenza, al fallimento scolastico e situazioni di povertà. Nello studio viene esaminato come la presenza di un padre biologico in casa sia legata alle possibilità di un giovane di conseguire una laurea.
I giovani che sono cresciuti con il loro padre biologico hanno più del doppio delle probabilità di diplomarsi all’università alla fine dei 20 anni, rispetto a quelli cresciuti in famiglie senza il padre biologico (35% vs. 14%). Anche dopo aver controllato la provenienza, il reddito familiare, l’educazione materna, l’età e un punteggio AFQT (una misura della cultura generale), provenire da una casa dove è stato presente il proprio padre biologico raddoppia la probabilità che un giovane si diplomi al college. Ovviamente gli studi non rappresentano l’unico fattore di successo della vita, ma ciò che emerge è che sempre più giovani uomini si ritrovano nell’ozio totale alla continua ricerca di svago, alienati tra ore interminabili davanti agli schermi e assunzione di droga.
A mancare sono il coinvolgimento emotivo, pratico e soprattutto il buon esempio quotidiano di un padre che è votato per natura a dire quei “no” sapienti e necessari. A indicare limiti ed ergere paletti. Il discorso poi è sicuramente da allargare ai padri che ci sono ma solo nella teoria. Sottomessi a un sistema che li vuole sempre più ai margini non rivendicano alcun tipo di responsabilità verso la prole. E questo non è solo fonte di disagio a tutti i livelli o micro-criminalità, ma rappresenta un’autentica minaccia per giovani sempre più soli e sradicati nonché per tutta la comunità; sarebbe da ingenui pensare che un ragazzo lanciato verso il futuro con speranza e sicurezza non faccia la differenza al beneficio di tutti.
Se poi volessimo spingerci ancora oltre, non sarebbe lontano dalla realtà affermare che l’assenza del padre contribuisce alla percezione sempre più diffusa nel giovane che sia anche il Padre celeste a mancare. Papa Benedetto XVI in una catechesi di un’Udienza generale del 2012 aveva affermato che «Dio ha iscritto se stesso nei nostri cuori» ed è possibile imparare a invocarlo solo «con la fiducia che ha un bambino ha verso i genitori che lo amano. […] L’assenza del padre, la non presenza del padre, è un grande problema del nostro tempo, e ci rende difficile capire nella profondità il senso della paternità di Dio». Se il padre del figlio prodigo avesse benedetto il comportamento del figlio e non gli avesse mostrato l’amore vero che lascia liberi ma dichiara la verità, lui non sarebbe tornato. Perché avrebbe riconosciuto che dietro al permissivismo si nasconde l’indifferenza, il non-amore. (Fonte foto: Bing immagini licenza libera)
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