«Non apriamo le porte alla cultura della morte». Con una nota diramata il 14 agosto scorso la Conferenza episcopale peruviana interviene sul tema che sta spaccando l’opinione pubblica nel Paese ossia la gravidanza della piccola Mila (nome di fantasia), 11 anni, violentata dal patrigno e ora in attesa di un bambino. L’uomo è stato prima arrestato, poi rilasciato. Mila invece è stata portata all’Istituto Materno Perinatale dove una commissione medica ha stabilito che non c’erano i presupposti per procedere con il cosiddetto aborto terapeutico perché non c’erano le “condizioni necessarie”, come il pericolo di morte o danni permanenti alla madre incinta. Una decisione poi annullata ribaltata da una seconda commissione medica, che il 12 agosto ha dato invece il placet per “un aborto terapeutico” ossia la soppressione del bimbo che sta crescendo in grembo.
«Di fronte a questo atto di ingiustizia e violazione del diritto alla vita dei nascituri, alziamo la nostra voce nel rifiuto di questo atto ingiusto e indolente. Poiché la vita è sacra. La vita è un diritto assoluto e inalienabile perché è un dono divino, che Dio ci chiede di custodire, come dice il quinto comandamento: “Non uccidere”. Ed è tutelato dall’art. 2 della nostra Costituzione e dall’art. I del Codice peruviano dell’infanzia e dell’adolescenza, che recita: “Ogni essere umano è considerato bambino dal suo concepimento fino all’età di dodici anni… Lo Stato protegge il concepito per tutto ciò che lo favorisce”. Pertanto, in forza del diritto divino e positivo, ha valore assoluto quando si riferisce all’innocente .“Tanto più se si tratta di un essere umano debole e indifeso» ( Evangelium vitae 57). L’obbligo della società e del Ministero della Salute (Stato) è quello di tutelare, anche in questo caso, sia la vita della gestante che quella del nascituro, avvalendosi di tutte le risorse della moderna ostetricia. L’insegnamento della Chiesa, in questi casi, è sempre quello di salvaguardare il diritto alla vita di entrambi».
Il copione di quello che sta accadendo è noto. Attraverso la strumentalizzazione di un caso limite si fa in modo di scatenare un dibattito pubblico che poi conduca alla legalizzazione dell’aborto, e spesso questo avviene manipolando i dati, mistificando storie, costruendo una vera e propria campagna mediatica. E’ stato così negli Stati Uniti, con la storica sentenza Roe Vs Wade, è stato così in Italia con il disastro di Seveso. E i vescovi peruviani sanno che è in atto lo stesso tentativo anche da loro: «È noto che da alcuni anni – scrivono – c’è una pressione sostenuta e crescente per depenalizzare l’aborto nei casi di stupro».
«Ricordiamo – si legge ancora nella nota – che in una gravidanza per stupro ci sono tre persone, lo stupratore, la vittima e un innocente. In questo caso, una persona innocente è stata condannato a morte, la vittima è stata esposta a un danno maggiore e l’autore del reato è stato rilasciato». I vescovi ricordano poi come non si possa in nessun caso giustificare un male, in questo caso un aborto diretto, per ottenere presumibilmente il benessere di un’altra persona. «Chiediamo alle autorità e agli operatori sanitari di riflettere su questo evento doloroso, perché il Perù non apra le porte alla cultura della morte; e che la piccola “Mila” sia adeguatamente custodita, aiutata a guarire le ferite dello stupro, non sottoposta ad aborto e che lo stupratore sia perseguito con tutto il peso della legge per prevenire eventuali ulteriori abusi. Vogliamo inviare le nostre preghiere per Mila e la sua guarigione. Possa il Signore della Vita proteggere le vittime innocenti dell’aborto e possa la Nostra Beata Madre proteggere la vita dei bambini non ancora nati».
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