«Nel 2015 divento una mamma surrogata per la prima volta. Ero eccitata e desiderosa di aiutare una coppia a diventare genitori, ma devo ammettere che non sapevo molto sull’infertilità. Dal 2015, ho subito 7 trasferimenti di fecondazione in vitro, un aborto spontaneo, ho avuto due gravidanze chimiche, un trasferimento fallito e ho dato alla luce tre bellissimi bambini nel 2017, 2018 e 2021. Nel 2022, ho la mia quinta e ultima maternità surrogata per la mia migliore amica. Ho imparato così tanto sulla riproduzione assistita che negli ultimi anni mi sono appassionata alla difesa, all’educazione e alla consapevolezza della maternità surrogata». No, non è l’estratto di un romanzo distopico, è il “curriculum” di Ariel Taylor, quarantaduenne titolare del marchio Carried with love, ovvero Portato con amore, dove il soggetto di portato è il bebé nell’utero, affittato ovviamente.
Ariel fa parte del crescente numero di donne, americane principalmente, ma anche canadesi, che raccontano sui social la loro quotidianità di mamme surrogate mostrando la “gioiosa normalità” di quelle che chiamano, ça va sans dire, “gravidanze solidali”. A seguirla su Instagram ci sono oltre 52mila followers ai quali documenta, a suon di post col pancione e reel petalosi, tutte le sue gravidanze. Quattro hanno portato alla nascita di altrettanti bimbi poi affidati alle coppie committenti, nello specifico “due coppie di papà”, perché un po’ di arcobaleno si sa, rende tutto più bello. Famiglie che va periodicamente a trovare, documentando le visite con tanto di video. «Io ero nella tua pancia» le dice uno dei bimbi, mentre lei nei commenti rassicura che no, il piccolo non sente la sua mancanza, e sono tutti contenti, compresa sua figlia Ariel, 8 anni, che pure viene ripresa in un video di quando, a tre anni, lamenta la mancanza della mamma che è andata a partorire un fratellino che non vivrà mai in casa loro. Ma non è come pensate, tutti vivono felici e contenti.
Le ultime puntate della favola social sono andate in onda nelle ultime settimane, con il parto di quella che aveva annunciato essere la sua ultima surrogacy. Ossia la gravidanza del figlio della sua amica, Marissa, che a sua volta racconta il suo viaggio su Instagram con il profilo One impatient mama, ossia Una mamma impaziente. Questa volta la coppia è etero, ma non cambia nulla, è tutto solo meraviglioso, l’unico intoppo dieci giorni fa, quando è stato chiaro che il bimbo non sarebbe nato in anticipo come avvenuto per i precedenti parti. Poco male, penserete voi, invece Ariel in lacrime racconta il dramma di dover programmare un cesareo in tempi utili per poter andare in vacanza con la sua famiglia allargata ovvero sua figlia, il suo partner Brandon e le due figlie di lui. Poi un altro post e tutto si risistema, il cesareo è riuscito, la mamma impaziente, ovvero la committente, viene accompagnata in camera sulla sedia a rotelle come se avesse davvero partorito lei, le vacanze sono salve e finalmente si può anche mangiare il sushi. Eppure questa non è l’ultima puntata.
Dopo qualche giorno Ariel posta una nuova foto, che la ritrae in ospedale, dopo il parto, sorridente, con due piccoli contenitori cilindrici in mano. Dentro ci sono… le sue tube di Falloppio, che si è fatta rimuovere contestualmente al parto cesareo. Lo spiega così: «Anche se non ho una storia familiare di cancro all’apparato riproduttivo e nel complesso sono una persona sana, i rischi dei trattamenti di fecondazione in vitro sulla salute riproduttiva sono ancora sconosciuti. È molto importante – scrive ancora – che le madri surrogate e le donatrici di ovuli comprendano i rischi anche se sono piccoli. Sebbene questo aumento del rischio sia minimo, non disponiamo di molte ricerche sugli effetti a lungo termine della fecondazione in vitro e su come potrebbe influire su qualcuno anche tra 20 o 30 anni. Ecco perché ho agito in via preventiva», dice riferendosi alla decisione di rimuovere le tube. Segue pioggia di cuoricini, like e good vibes.
A quello che pensano i bambini chi ci pensa, agli embrioni creati e uccisi in questi processi chi ci ha mai pensato, alla sacralità della maternità, della femminilità, o anche “solo” del corpo meno che meno. Contano solo il risultato finale, col “prodotto” consegnato, e la narrazione: rassicurare i follower che vivranno tutti felici e contenti.
La chiamano modernità.
(Foto: Facebook)
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