Oggi, 115 anni fa, nasceva da una maestra monarchica e da un imprenditore socialista Giovannino Guareschi. Lina Maghenzani lo mise al mondo nella casa di Fontanelle di Roccabianca, in provincia di Parma, mentre suo marito, Primo Augusto Guareschi, poteva osservare dalla finestra i festeggiamenti dei lavoratori.
Un breve profilo professionale potrebbe essere il seguente. Nel 1928 inizia la sua carriera da giornalista dopo l’incontro con Cesare Zavattini come correttore di bozze al Corriere Emiliano, di cui poi diventerà redattore. Capo redattore nel 1936 della Rizzoli e nel 1945, tornato dalla guerra, fonda insieme a Giovanni Mosca il settimanale Candido. Dal 1950 al 1957 Guareschi ne resta il direttore unico e continua a collaborarvi fino al 1961, quando il settimanale pose fine alle pubblicazioni.
Nel 1963 è sempre Zavattini a proporgli di lavorare per un nuovo quindicinale di satira, il Bertoldo, a Milano. Collabora poi al Borghese e alla Notte e fino al 1968 cura una rubrica su Oggi. Le sue opere sono state tradotte in quasi tutte le lingue del mondo: dalle più note all’islandese, maharashtri, vietnamita, arabo e lituano. I film di Don Camillo e Peppone erano – e sono tuttora – così apprezzati che con buona probabilità chi frequentava le sezioni del Pci andava a vederli e si divertiva pure, anche se dalle gerarchie comuniste era disprezzato.
Potremmo descriverlo in tanti modi, giornalista, disegnatore, umorista e scrittore, ma forse ciò che racchiude tutti questi appellativi è: il padre di Don Camillo e Peppone. Nel 1948 esce il primo romanzo sui suoi due amatissimi personaggi, che dà il via a una saga ventennale in 346 puntate e 5 film divenuta poi famosa in tutto il mondo. Episodi intrisi di profonda fede cattolica, attaccamento alla monarchia e di quell’ironia politica sana e leale di cui pochi oggi possono vantarsi. Il suo era un umorismo mai beffardo, di chi nell’esperienza dei Lager deve aver incontrato Qualcuno, tanto importante da poter trasformare l’odio in speranza. Da donargli un cuore libero, veramente cristiano.
Detestato a sinistra, è stato da molti definito “fascista”, ma rispondiamo oggi ricordando le parole di Montanelli: «Guareschi, due anni di Lager nazisti per non avere accettato di aderire a Salò, 400 giorni di durissimo carcere italiano per non abiurare alle sue battaglie per la vera democrazia, è solo e sempre Guareschi, se stesso, mai portato il cervello a nessun ammasso».
La fervente ironia ha reso Guareschi uno dei più lucidi critici del Pci, famosissime sono a riguardo le vignette intitolate «Obbedienza cieca, pronta, assoluta» dove deride i militanti comunisti, cosiddetti «trinariciuti», «la terza narice», spiega, «fa defluire la materia cerebrale e fa entrare direttamente nel cervello le direttive del partito». O ricordiamo lo slogan: «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!». È stato proprio Guareschi a incarnare la necessità di essere sia antifascisti che anticomunisti, finito in galera per aver diffamato il duce e i gerarchi e allo stesso tempo per una querela dello statista democristiano De Gasperi.
Concludiamo ricordandolo con il “pensiero di Natale” che ha donato il figlio, Alberto Guareschi, al numero del Timone di dicembre 2022:
«Dove mio padre vide il (vero) don Camillo»
«Al pomeriggio della Vigilia di Natale mio padre accompagnava me e mia sorella a Marore – il paesino in provincia di Parma, dove sua madre ha fatto la maestra elementare per trentanove anni – per portare sulla tomba dei miei nonni un mazzo di violette. Lo mettevamo, lo ricorda mio padre, “fra il bronzo della cinghia e il bronzo del grembiule della statua di Gramigna, l’ultimo della classe” posta sulla tomba a piangere la sua vecchia maestra. Prima di lasciare Marore ci fermavamo a salutare la famiglia amica dei Rastelli che ci aveva aiutati in tempo di guerra quando mio padre era internato nei Lager tedeschi. Ricordo ancora la loro cucina con una finestra che dava sulla strada e dalla quale si vedeva la chiesa dove officiava, ai tempi di mio padre ragazzetto, don Lamberto Torricelli, il parroco gigantesco che gli avrebbe ispirato il personaggio di don Camillo. Risento ancora adesso il profumo del lievito “madre” del pane che usciva dalla madia dei Rastelli e provo ancora la serenità di quei momenti».
E alle accuse di chi l’ha definito «uno scrittore per palati facili», c’è da rispondere che ha resistito alla prova del tempo e oggi s’innalza a memoria dei veri intellettuali liberi, che mai si sono inginocchiati a una certa parte della politica o della cultura, mantenendo sgombri anima e cervello. C’è da augurarselo, di trovarne altri che sappiano mettere al centro la persona umana, piuttosto che le ideologie. La realtà, piuttosto che la follia di un mondo che sembra girare al contrario. Si distinguerebbe facilmente nell’odierno branco mainstream di cui siamo circondati.
(Fonte foto: ricerca immagini Bing senza licenza)
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