Nell’immaginario ormai comune e costantemente alimentato dai media, la scristianizzazione dell’Occidente rappresenta un processo non solo inevitabile, ma perfino auspicabile. Questo perché ci si va sempre più convincendo della validità di una equazione che, in sintesi, si potrebbe riassumere così: meno religione uguale meno dogmi, uguale più autodeterminazione e più libertà. Ne consegue come il declino della fede sia sempre più visto come una buona notizia; del resto, la stessa Chiesa sembra aver perso la capacità di arginare l’avanzare del secolarismo, la cui marcia trionfale – tra seminari deserti e messe domenicali sempre meno frequentate – pare davvero inarrestabile.
In tutto questo, c’è un piccolo dettaglio che si trascura costantemente di richiamare benché decisivo: una società areligiosa è insostenibile. Di più: senza fede una comunità diventa progressivamente più fragile, fino a sbriciolarsi. Non si tratta, attenzione, di un ragionamento astratto ma dì una evidenza riassunta in Opiates of the Masses? Deaths of Despair and the Decline of American Religion, un fitto paper di oltre 60 pagine da poco pubblicato dal National Bureau of Economic Research, un importante think tank di Cambridge, Massachusetts. Realizzata dagli studiosi Tyler Giles, Daniel M. Hungerman e Tamar Oostrom, questa indagine parte da una constatazione: negli Usa, le cosiddette “morti per disperazione” quelle dovute a suicidio, overdose di droga e alcolismo – sono aumentate drammaticamente.
Solo che tale aumento si è accompagnato ad un altro fenomeno. «Esso è stato preceduto», scrivono Giles e colleghi, «da un calo della partecipazione religiosa» e, curiosamente, ambedue tali tendenze risultano «guidate da americani bianchi di mezza età». Naturale, allora, chiedersi se le due realtà in qualche modo siano collegate, ossia se una – l’abbandono della frequenza ai luoghi di culto – sia correlata alla seconda, il dilagare delle “morti per disperazione”. Per verificare il legame, questi studiosi sono partiti da una svolta normativa che ha caratterizzato gli anni ’80, vale a dire la progressiva abrogazione, nei vari Stati, delle cosiddette Blue laws – o Leggi della Domenica – che erano norme che proibivano o comunque disciplinavano, la vendita di alcolici in certi orari, generalmente da sabato sera/notte fino alla domenica dopo pranzo.
Pur difformi in alcuni aspetti, le Blue laws avevano il fine di incoraggiare l’osservanza del Giorno del Signore. Ebbene, Giles e colleghi, dati alla mano, hanno osservato che «gli americani di mezza età, l’abrogazione di queste leggi ha avuto un impatto da 5 a 10 punti percentuali sulla frequenza settimanale dei servizi religiosi e ha aumentato il tasso di “morti per disperazione” di 2 morti ogni 100.000 persone. L’applicazione di questi risultati al declino della religione alla fine del secolo suggerisce che questo declino potrebbe essere responsabile di una quota ragionevolmente ampia dell’iniziale aumento dei decessi per disperazione». Naturalmente, sarebbe sbagliato banalizzare il discorso affermando che frequentare i luoghi di culto equivalga ad avere una effettiva spiritualità; esattamente come può essere semplicistico ricondurre l’adesione alla religione alla vigenza o meno di certe leggi.
Tuttavia, il legame intercettato da questi studiosi tra fede e “morte per disperazione” non può essere minimizzato. Soprattutto quando evidenziano, non senza una nota di pessimismo, che «i benefici primari della partecipazione religiosa» risultano assai «difficili da replicare con altre forme di impegno sociale». Significa che andare in chiesa non è surrogabile con il volontariato o con altre attività: l’esperienza del sacro non ammette surrogati. Sono valutazioni, queste, che meritano di essere meditate con attenzione, anche perché non si tratta della prima volta che un simile ragionamento viene effettuato. Già altri due studiosi di valore Tyler J. VanderWeele e Brendan Case avevano infatti evidenziato, come ricordato dal Timone, che «l’abbandono della religione sta danneggiando anche il benessere di coloro che hanno smesso di frequentare le chiese».
Tutto ciò non vuol dire, ovviamente, che bisogna andare a Messa perché “fa bene alla salute”. Ci mancherebbe. Tuttavia, risulta quanto meno curioso come, in una società che fa sempre più della ricerca del benessere un vero e proprio culto – che si riflette nel successo dei guru come dei viaggi esotici, delle diete ricercate come della pratica sportiva -, quasi nessuno abbia il coraggio di riconoscere che, forse, tante cose potrebbero andare meglio – nella salute come nelle relazioni – se solo si riscoprissero proprio quei valori religiosi, e soprattutto cristiani, che si stanno invece mettendo da parte. Che poi debbano essere dei laicissimi accademici a ricordare che, forse, l’anziana che continua a coltivare la sua fede recandosi a messa è più saggia di tanti che si danno allo sballo, ecco, rispecchia l’insospettabile rivincita di Dio su un mondo che, illudendosi, immagina di poter fare a meno di Lui. (Foto: di Fabrizio Di Michele)
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