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Messina Denaro finalmente in manette. Ma questa «legalità» non basta
NEWS 17 Gennaio 2023    di Giuliano Guzzo

Messina Denaro finalmente in manette. Ma questa «legalità» non basta

Il 16 gennaio 2023 è una data che le cronache, e non solo quelle, difficilmente dimenticheranno dato che è stato il giorno – dopo 30 anni di latitanza – dell’arresto di Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande boss di Cosa nostra. «U Siccu» e «Diabolik» è stato arrestato mentre si trovava presso La Maddalena, struttura palermitana dov’era in cura per un tumore. Proprio quest’ultimo particolare è stato decisivo per le indagini. Grazie infatti agli ultimi tre mesi di intercettazioni (quindi in corso da prima che il pentito Baiardo, due mesi fa, parlasse dei problemi di salute del boss), i Carabinieri erano riusciti a capire che il capo mafioso dal novembre 2020 aveva un serio problema di salute. Di conseguenza, è stato fatto un incrocio tra quanti in Sicilia e a Palermo potevano riportare la stessa criticità – l’adenocarcinoma mucinoso del colon – e quelli, di questi, che potevano avere un’età compatibile con quella di Denaro.

Ci si è così imbattuti in un personaggio misterioso: il geometra Andrea Bonafede. Un’identità sospetta dietro la quale, si è scoperto presto, si celava proprio lui: l’inafferrabile uomo delle stragi del ‘92-‘93, il pupillo del capo dei capi Salvatore Riina morto nel 2017. Così, dopo essere stati allertati da venerdì scorso, ieri, nella hall della rinomata clinica palermitana, i Carabinieri del Ros erano appostati ed hanno effettuato il clamoroso arresto. Certo, 30 anni di latitanza restano tantissimi (anche se Bernardo Provenzano, per dire, ne fece ben di più: 43) e non si può non chiedersi come abbia fatto uno come Messina Denaro a restarsene sereno a due passi da casa, mentre era al contempo l’uomo più ricercato d’Italia. Una possibile spiegazione di tutto questo è quella data dall’arcivescovo di Palermo.

Monsignor Corrado Lorefice ha infatti detto apertamente – non senza rivolgere «un pensiero alle tante vittime della mafia e ai tanti martiri della giustizia e della fede, testimoni che per primi hanno scelto quella strada di liberazione su cui migliaia di cittadini si sono poi messi coraggiosamente in cammino» – che «trent’anni di latitanza sono stati possibili anche grazie a diverse forme di copertura». Si tratta, in effetti, di quello che pensano in tanti e che dovrà senza dubbio essere chiarito. Certo è che non si può accusare in alcun modo i Carabinieri del Ros, che hanno inseguito il grande boss in tutti i modi: con intercettazioni, pedinamenti, arrestandogli vari collaboratori fino all’amata e potente sorella. Non solo: diversamente da quanto avvenne per Riina, il covo, cioè la casa del boss, è stato immediatamente perquisito.

Ciò detto, al di là di questo importante svolta nel contrasto alla criminalità organizzata (e di singolari “profezie”, come quella del Ministro Piantedosi, che giorni fa disse di augurarsi di essere il Ministro che avrebbe arrestato Messina Denaro), va però chiarito un punto fondamentale non tanto da una prospettiva criminologica o giudiziaria, bensì antropologica: questa «legalità» non basta. Bene, anzi benissimo arresti come quello avvenuto nelle scorse ore, ma non ci si illuda che la legge e la pena siano antidoti sufficienti per arrestare un fenomeno come quello mafioso che, se da un lato certamente – essendo in definitiva un fatto umano, come osservava Giovanni Falcone ha avuto un inizio e non potrà, conseguentemente, che avere una fine, dall’altro chiede di essere combattuto con mezzi ancora più potenti di quelli in mano a magistrati e forze dell’Ordine. Quali? Quelli esplicitamente indicati da Giovanni Paolo II.

Come ricordato dal giudice – che dopo le elezioni del 25 settembre Sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri – Alfredo Mantovano sul Timone di giugno, resta in tal senso fondamentale quanto avvenne nel tardo pomeriggio del 9 maggio 1993. San Giovanni Paolo II stava completando la sua visita in Sicilia, e aveva appena conclusa la celebrazione della Messa nella Valle dei Templi, ad Agrigento, quando decide di tenere un discorso breve ma epocale. «Non ha timore», osserva Mantovano, «a pronunciare il termine “mafia”, e nel farlo la sua condanna è senza scampo. Pone la mafia in conflitto col “diritto” alla vita, che è “santissimo» perché, prima che dell’uomo, è “di Dio”». Ma lasciamo a questo punto la parola direttamente a lui, Karol Wojtyła.

«Questo popolo siciliano è un popolo talmente attaccato alla vita», furono le parole del Papa polacco, «che dà la vita. Non può sempre vivere sotto la pressione di una civiltà contraria, di una civiltà della morte. Qui ci vuole una civiltà della vita. Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!». Parole, queste, che non sono affatto inquadrabili come un semplice appello, no: furono qualcosa di ben più forte, anche da un punto di vista spirituale e, come già si diceva, antropologico. A sottolinearlo in modo molto forte, sulle colonne della nostra rivista, è stato sempre il giudice Mantovano, che ha osservato:

«L’organizzazione del male propria dell’associazione mafiosa – questa è la novità del discorso di Agrigento – non riveste solo un pur pesante disvalore civile: è qualcosa di qualitativamente più grave. Non è un mero insieme di cadute frutto della debolezza dell’uomo, è piuttosto la preordinazione, la programmazione e la realizzazione di atti contro l’uomo. È un organismo che sorge e opera allo scopo di ledere i diritti di chi non vi si assoggetta, a cominciare da quello fondamentale all’esistenza in vita. È un porsi contro Dio in modo non occasionale, per debolezza, ma voluto, pianificato e strutturato. È un’anti-Chiesa, prima ancora che un anti-Stato, perché esige tutto».

Ecco, se si riflettesse maggiormente più su questo, e cioè sul fatto che il fenomeno mafioso non rappresenta tanto e “solo” un male per lo Stato e un affronto per la legalità, bensì «un’anti-Chiesa, prima ancora che un anti-Stato», forse si riuscirebbe a contrastarlo con maggiore efficacia. Per il semplice fatto che, in questo modo, si potrebbero richiamare le coscienze – quelle dei mafiosi così come quelle di quanti fossero tentati da una carriera criminale -, sul fatto che rischiano qualcosa di ben più grave e definitivo e potenzialmente terrificante di un arresto, di un processo e di una condanna di terzo grado: il giudizio di Dio.

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