Oggi nella sua casa di Milano è morto, all’età di 86 anni, Cesare Cavalleri, storico direttore delle edizioni Ares e della rivista Studi Cattolici. È stato una colonna della cultura cattolica italiana, poche settimane fa aveva annunciato da par suo che gli restava poco da vivere. Oggi appunto ci lascia, ma noi speriamo con grande confidenza che in realtà oggi sia ancor più presente a tutti, perché accolto subito davanti a quel Signore che ha seguito lungo tutta la sua vita e nella sua professione. Di seguito riportiamo alcuni passi di un’intervista che mi ha concesso nel giugno del 2019 e che è stata pubblicata integralmente sul quotidiano La Verità il 29 giugno dello stesso anno. A Dio caro Cesere, addio maestro. (L.B.)
La finestra del suo studio ha una vista sul parco delle basiliche a Milano che oggi però si chiama “Parco Papa Giovanni Paolo II”. «Il santo papa polacco», mi dice Cesare Cavalleri, «è stato il papa che ho sentito più vicino a Studi cattolici, lo intervistammo ancora cardinale e poi siamo sempre rimasti in contatto».
Davanti a me ho un signore di 83 anni nato a Treviglio, ma da cinquant’anni a Milano, che nonostante qualche acciacco dimostra di essere molto sul pezzo, come si dice. Dal 1966 è direttore della rivista Studi cattolici e delle edizioni Ares, due punti di riferimento per la cultura cattolica e non solo. Basta guardare le fotografie nel suo studio e le sue frequentazioni per capirlo: c’è Dino Buzzati, c’è Giovanni Paolo II, c’è Salvatore Quasimodo e c’è Ornella Vanoni. (…)
Direttore, come è cambiata la cultura cattolica in questi decenni?
«La cultura cattolica non esiste, è in continuo cambiamento. L’anagrafe non importa: possono esserci rivoluzioni in due mesi e poi restare tutto statico per decenni». (…)
Cosa è il giornalismo nel 2019?
«A mio parere è scomparso, nel senso che una volta il giornalista cercava le notizie adesso, invece, passa la gran parte del suo tempo davanti a un computer, legge un’agenzia e scrive quello che gli viene in mente. Mi pare di poter dire che in un mondo sempre più dinamico il giornalismo è diventato paradossalmente statico. E non mi sembra un gran guadagno per la professione».
E dalla prospettiva del lettore?
«Il problema oggi non è la notizia, ma l’eccesso di notizie, ecco perché occorre un filtro, un setaccio, come anche Studi cattolici vorrebbe fare. In questo mare magnum di news che ci annegano, tutto ormai avviene in tempo reale, perciò credo sarà sempre più necessario un qualche criterio per gerarchizzare le notizie o, per dirla gesuiticamente, per fare un discernimento».
Quindi, carta stampata o web?
«Io propendo per la carta, soprattutto per l’approfondimento che può fornire un mensile, ma anche il quotidiano in edicola ha un futuro che non gli verrà tolto».
Lei ha vissuto diversi pontificati, da Pio XII a Francesco, cosa è cambiato nella chiesa?
«Molto. Pio XII è, in un certo senso, l’ultimo papa, così come si interpretava tradizionalmente il pontificato. Me lo ricordo nell’anno santo del 1950 che passava sulla sedia gestatoria ieratico e benedicente, rappresentando un certo modo di essere chiesa. Un modo direi appagante perché quando diceva qualcosa, magari in un unico radio messaggio a Natale, lasciava una traccia molto profonda. Giovanni XXIII è il papa del concilio, un papa che ha riscaldato il cuore. Con Paolo VI registriamo un passaggio importante, in cui il dialogo diventa un nuovo modo di essere; all’epoca dell’enciclica Ecclesiam suam (1964) su Studi cattolici intitolammo “Il dialogo tormento apostolico”. Questo dialogo è importante, ma deve essere posto sulla base di interlocutori identitari, altrimenti rischia di diventare solo una giustapposizione di opinioni. Giovanni Paolo II, come le ho già detto, è stato il papa che ho sentito più vicino».
Perché?
«A me sembra, sia detto rispettosamente, che sia stato il pontefice che più di tutti ha capito il ruolo dei laici nella chiesa. Tutti gli altri non lo hanno fatto in quel modo, compreso l’amatissimo Benedetto XVI, grandissimo professore, che già nella scelta del nome ha però un’idea di chiesa vista dalla prospettiva del monaco studioso, ma i laici non sono questo. Papa Francesco, che pur presta attenzione ai laici, ha una concezione a mio avviso un po’ pauperistica del laicato».
Tra gli autori delle edizioni Ares di questi decenni chi ha lasciato un segno indelebile?
«Innanzitutto san Josemaría Escrivá che è il nostro autore principale best seller e per me, che sono membro dell’Opus dei, sebbene Studi cattolici e Ares siano una cosa a parte, è una gioia particolare. E poi devo citare Eugenio Corti con il suo romanzo Il cavallo rosso che ho pubblicato per la prima volta nel 1983 e che continuiamo a ripubblicare: siamo alla trentaseiesima edizione». (…)
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