Capelli castani lunghi, mossi a incoronare il viso truccato delicatamente, piercing al naso, unghie curate e tailleur con pantaloni di un rosso sgargiante. Si è (ri)presentata al pubblico così, pressoché irriconoscibile senza una presentazione o senza l’ausilio del sottopancia televisivo, Cristina Scuccia, ospite negli studi di Verissimo. L’ex suora orsolina della Sacra Famiglia, diventata famosa nel 2014 per aver vinto The Voice Of Italy e che da quel momento non si è più fermata nelle sue apparizioni “pubbliche” a livello internazionale – dai palcoscenici, alla carta stampata, ad altri talent show – ha infatti deciso di dare un drastico cambio alla sua vita, togliendosi il velo e abbandonando la vita consacrata. «Il cambiamento», ha dichiarato con convinzione la giovane in studio, «è un segno di evoluzione, ma fa sempre paura perché è più facile ancorarsi alle proprie certezze piuttosto che rimettersi in discussione. Esiste un giusto o sbagliato? Credo che con coraggio si debba soltanto ascoltare il proprio cuore».
Naturalmente, come ormai siamo assuefatti a veder succedere, la maggior parte dei media non ha perso l’occasione per attaccarsi al caso particolare della trentaquattrenne ragusana nell’ottica di inneggiare alla “libertà” insita nella sua scelta, alla sua forza nell’abbandonare una vita considerata “castigata” per spiccare il volo nel mondo. E forse si può essere facili profeti nell’affermare che nel corso dei prossimi giorni e settimane saranno ripresi ad hoc altri casi simili, di consacrati che decidono di tornare sui propri passi e iniziare a camminare nel mondo.
Proviamo invece ad adottare l’approccio contrario, lasciando da parte la specifica storia di Cristina – nel cui animo non ci è dato da entrare e sulla cui vita il giudizio finale spetta a Qualcun altro, con la “Q” maiuscola.
Naturalmente, la vicenda della ex suora canterina può aprire a diversi interrogativi e riflessioni: dal senso che ha, nel mondo odierno, la parola “vocazione”, a come vengono accompagnati i giovani di oggi nella scoperta della propria “chiamata” di vita; da quale sia la corretta interpretazione dell’evangelico «essere nel mondo senza essere del mondo» (per i laici e, tanto più, per i consacrati), alla testimonianza che ognuno, semplicemente con la propria vita, è chiamato a dare; dall’influenza delle emozioni e delle “mode” del momento, alle tentazioni che ognuno può trovare sul proprio percorso… e via di questo passo.
Eppure, a ben vedere, il punto fondamentale, che anticipa ogni altro ragionamento, appare un altro: la perdita della consapevolezza che ognuno nasce con uno scopo. Uno scopo che non è tanto (o, meglio, non solo) consacrarsi, piuttosto che sposarsi; prendersi cura dei propri figli spirituali, piuttosto che mettere al mondo dei figli “di carne”; pregare, piuttosto che lavorare… eccetera. No, il vero scopo cui ognuno, indistintamente, è chiamato, anche se è molto unpolitically correct e richiede una bella dose di coraggio nell’andare controcorrente, è un altro: farsi santi. Ovvero vivere orientati verso il Signore.
Ecco, questa consapevolezza è il vero nocciolo della questione: troppo spesso, oggi, si vivono esistenze fondamentalmente “senza senso”, proprio perché non si ha chiaro il fine verso cui si è chiamati a tendere. Invece, ci insegnano proprio i santi, non è tanto il “cosa” si fa – partecipare a un meeting che vorrebbe cambiare le sorti del mondo, o cambiare otto o più pannolini al giorno; scrivere la Summa, o coltivare la terra – bensì il “come” lo si fa.
Se si recupera il senso della vita, ancorandosi a una certezza inscalfibile in un mondo dominato dal relativismo e dalle emozioni, ogni altra cosa verrà di conseguenza. Anche la scelta della vocazione e la coerenza nel portarla avanti, a dispetto “del mondo”.
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