La persecuzione dei cristiani nel mondo aumenta ancora. È quanto emerge dallo studio della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS): “Perseguitati più che mai. Rapporto sui cristiani oppressi per la loro fede 2020-2022”. Il Timone ha incontrato Alessandro Monteduro, direttore di ACS. Dalla ricca intervista – che intreccia la mappa geopolitica delle violenze anticristiane all’azione diplomatica della Santa Sede – emergono i perché alla domanda posta dal vescovo nigeriano mons. Jude Arogundade a margine del Rapporto: «Quanti cadaveri sono necessari per attirare l’attenzione del mondo?».
Monteduro, qual è il suo giudizio complessivo sul vostro nuovo Rapporto di ACS? «Per numeri, accadimenti e testimonianze, l’analisi purtroppo non lascia intravedere nessun segnale di miglioramento, nemmeno un barlume di speranza. Paradossalmente ci sono paesi che fino al 2015 non sapevano neppure cosa fosse la persecuzione in odio alla fede, e che invece oggi sono l’epicentro del fenomeno. Penso ai paesi della fascia del Sahel, l’ampia regione che si estende dalle ultime propaggini del deserto del Sahara fino alle savane dei paesi della fascia equatoriale».
Come spiega questo fenomeno? «Dopo la sconfitta militare avvenuta in Medio Oriente, nella Piana di Ninive in Iraq, coloro che tra gli affiliati dello Stato Islamico sono riusciti a fuggire, hanno trovato sempre più rifugio nell’enorme area africana del Sahel. La conseguenza è stata un’immediata attività di proselitismo attraverso l’apertura di scuole coraniche e di madrasse».
Quali sono i Paesi coinvolti? «Parliamo di nazioni come il Ciad, il Mali, il Niger, il Sudan e il Burkina Faso. Quest’ultimo è un caso emblematico poiché è addirittura il terzo paese più povero al mondo, e capiamo bene che laddove non c’è speranza, laddove imperversano incuria e corruzione, non è affatto difficile operare proselitismo. Anche perché l’affiliazione alle organizzazioni jihadiste, per una persona, si traduce in un compenso, in un percorso occupazionale».
L’Occidente in tutto questo cosa fa? «È chiuso nel silenzio più totale. Purtroppo non risulta ancora chiara una cosa lampante: il fenomeno islamista, che si va consolidando, è qualcosa con cui prima o poi tutti verremo chiamati a fare i conti. Che ci piaccia o no. Quello che accade oggi non è a chissà quante migliaia di chilometri dal Mediterraneo e dall’Italia. Anzi, è proprio dalla regione del Sahel che iniziano ad arrivare flussi migratori sempre più consistenti. La verità è che non sappiamo fino a quanto quei flussi saranno ancora “sinceri”, composti cioè da persone che davvero fuggono da condizioni di disperazione».
Sta dicendo che l’instaurazione, anche in Europa, di Califfati nazionali e trasnazionali non è un’ipotesi così peregrina? «Ce lo dice la realtà. Ormai, per via dell’occupazione jihadista, il 60% del territorio del Burkina Faso non è più raggiungibile dalle associazioni di volontariato, dalla Croce Rossa, dalla Caritas. A soffrire è tutta l’Africa. In Mozambico, il terrore provocato dalle crudeli e continue azioni di Al-Shabab, compreso il recente assassinio di suor Maria De Coppi, sono lì a raccontarlo. In ogni caso, oltre alla radicalizzazione jiadista in Africa, molti altri sono i posti nel mondo dove vigono indicibili sofferenze perpetrate in odio alla fede; a iniziare dall’India, dal Myanmar, dal Nepal, dallo stesso Pakistan».
C’è un tratto comune che può unire tutta la violenza consumata in nazioni tra loro così lontane? «Sì, è quello che chiamiamo il fenomeno del “nazionalismo religioso”. Quelli che ho citato sono paesi nei quali si cerca una saldatura tra politica e religione dominante. In questo c’è una grande differenza, per esempio, con i regimi totalitari: in Corea del Nord, in Eritrea, in Cina non si cerca nessuna saldatura, lì semplicemente si vuole cancellare qualsivoglia religione. In India non è così: il nazionalismo induista, appoggiato dal partito conservatore del premier Narendra Modi, ha dato la stura a gravissimi episodi di violenza».
Chi è vittima dell’estremismo induista nell’India da 1,4 miliardi di abitanti? «Le altre comunità religiose: i cristiani, 140 milioni, e i musulmani, che sono ancora di più. Tra l’altro si tratta di atti di violenza che non solo aumentano in numero vorticoso, ma che non vengono neanche perseguiti. Questo nazionalismo religioso, che coincide con la religione dominante, ha di volta in volta un nemico diverso. Se in India, come detto, gli induisti perseguitano i musulmani, in Pakistan sono questi ultimi a perseguitare gli induisti. In Myanmar, invece, il nazionalismo buddista perseguita tutti: induisti, musulmani e cristiani».
C’è una comunità religiosa nel mondo che si sottrae alla logica del più forte e non attacca nessuno? «L’unica comunità di fedeli che è sempre vittima è quella cristiana. Purtroppo i nostri fratelli nella fede subiscono violenza da tutti. In nessun posto al mondo possiamo raccontare che l’estremismo cristiano perseguita un’altra comunità».
La Corea del Nord ha il triste primato di essere riconosciuta come la dittatura più repressiva al mondo. È ancora così? «Diciamo che dopo il “virus” del fondamentalismo islamico e quello del nazionalismo religioso, c’è un terzo virus: quello del totalitarismo. Rispetto alla presenza delle comunità religiose, non solo Aiuto alla Chiesa che Soffre ma anche altre agenzie internazionali, definiscono la Corea del Nord un “regime genocidario”. Possedere una Bibbia comporta il serio rischio di essere internato e di finire in veri e propri campi di concentramento».
Poi c’è la Cina. «Lì il discorso diventa molto particolare. Con 626 milioni di telecamere di sorveglianza in grado di leggere, attraverso scanner, i dati degli smartphone, la Cina è sprofondata nell’oppressione più invasiva. Il riconoscimento facciale rende facilmente individuabili anche gli appartenenti alle comunità religiose. In Cina soffrono non solo gli uiguri musulmani (per loro si parla di un milione di persone costrette nei tristemente famosi “campi di rieducazione”) ma anche i tanti cristiani presenti, costretti a vivere la fede nel modo più riservato possibile. Gli arresti indiscriminati e la chiusura forzata delle chiese sono all’ordine del giorno».
Com’è possibile conciliare tutto ciò con l’apertura di credito che la Chiesa cattolica ha fatto al regime di Pechino? «Potrei in qualche modo ribaltare la domanda. Come si concilia quanto il Santo Padre sta facendo con le comunità musulmane, sunnita prima e sciita dopo? Perché il Documento di Abu Dhabi sulla Fratellanza, il viaggio in Iraq, quello in Bahrain, proprio mentre lo jihadismo va compiendo massacri? Per la Cina il discorso non è dissimile. Con tutte le difficoltà del caso, che la stessa Santa Sede riconosce, il Santo Padre tenta in ogni modo di lasciare aperti canali di dialogo, e Dio solo sa quanto è importante. Ma se pensiamo che questi sforzi possano essere subito comprensibili, faremmo un errore».
Quanto tempo dovrà passare? «I magisteri, come anche certi gesti papali, si rivelano anche a distanza di decenni. Oggi non riusciamo a coglierli, e forse non li colgono neppure tutti i cristiani in Cina, ma l’alternativa semplicemente non c’è, se non quella di lasciare soli quei nostri fratelli. Nutro la forte speranza che quei frutti li coglieremo proprio quando non ci spereremmo più. Succede, lo racconta la storia».
Monteduro, vengo alla solita imprescindibile domanda: come rompere questa cappa di silenzio? Come è possibile che un qualunque gesto dei Ferragnez o la maglietta di un comico abbiano più risonanza di centinaia di migliaia di cristiani trucidati nel mondo? «Parlo spesso con i giornalisti. Mi raccontano che quando provano a “pompare” la news di un massacro, chessò, in Nigeria, Sri Lanka, in Pakistan – paesi nei quali si appicca il fuoco alle Chiese anche durante le Messe – notano che i lettori non apprezzano, per cui si adeguano. Se i video dei Ferragnez fanno tanti click e donne e bambini cristiani massacrati no, i giornali scelgono i primi. In realtà, però, la vera ragione di questa enorme censura è soprattutto un’altra, molto più profonda».
Quale? «Le violazioni alla libertà stridono con le rassicuranti categorie mentali che indossiamo. Secondo lei è facile per l’Occidente accettare l’idea che in Pakistan, all’indomani della liberazione di Asia Bibi, si sono radunate non decine o centinaia di persone, bensì milioni di musulmani che col cappio in mano ne chiedevano l’impiccagione? Meglio non guardare, meglio far finta di non vedere».
Anche se presto non sarà più possibile girare la testa dall’altra parte? «Finché è possibile, si preferisce così. Tra qualche anno, se gli analisti, gli intellettuali e i politici continueranno a non esercitare alcuna mediazione, lasceremo la reazione esclusivamente alle viscere di ampi strati della popolazione. E saranno macerie».
Cosa vuole dire precisamente? «Voglio dire che in Francia, tanto per non andare lontani, giochiamo col fuoco. I numeri riguardanti l’apertura delle moschee, la chiusura delle sinagoghe e la riconversione delle chiese in attività commerciali, sono assolutamente impressionanti. Ho visitato Bordeaux i primi di ottobre, i centri commerciali mantengono i tratti delle chiese, con le caratteristiche pietre, ma sugli altari erano appoggiati oggetti da vendere. Non è stato un bel vedere. Un altro dato? Il 40 per cento della città di Marsiglia non è più raggiungibile dalla Polizia, una situazione non lontanissima da ciò che avviene nel succitato Burkina Faso. Siamo sicuri che gli abitanti di quella città, come di tante altre in nord Europa, accettino ancora supinamente tutto, e non si rischi, invece, che le diverse comunità entrino in conflitto tra loro? L’Occidente è di fronte a un bivio ma pochi hanno il coraggio di dirlo». (Foto: Imagoeconomica)
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