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NEWS 14 Ottobre 2022    di Redazione

Per la CEDU la blasfemia anticristiana della Femen è “libertà di espressione”

La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) si è schierata ancora una volta con i blasfemi anticristiani, difendendo la “libertà di espressione” di una “Femen” che ha profanato la chiesa della Madelaine a Parigi nel 2013. Giovedì 13 ottobre, infatti, la CEDU ha condannato la Francia a risarcire un’attivista femminista apparsa in topless nella chiesa parigina della Madeleine nel 2013, prima di mimare un aborto e di urinare sui gradini dell’altare.

Quel giorno, Éloïse Bouton aveva fatto irruzione nella chiesa della Madeleine, a petto nudo, davanti a una dozzina di persone e un coro in piena prova. Sulla schiena la scritta “Il Natale è cancellato” mentre sul petto portava un’iscrizione riferita al manifesto delle “343 puttane”, queste donne che nel 1971 avevano chiesto la legalizzazione dell’aborto. Ha poi mimato un aborto del bambino Gesù ponendo pezzi di fegato di vitello ai piedi dell’altare. Il suo obiettivo, ha detto, era denunciare l’opposizione della Chiesa cattolica all’aborto.

Ma in questa macabra messa in scena, la CEDU ha visto ingiustamente condannata l’azione di una coraggiosa attivista femminista, quando il suo “unico obiettivo”, secondo la CEDU, era molto nobile: contribuire «al dibattito pubblico sui diritti delle donne, in particolare sul diritto all’aborto». Lo Stato francese è stato quindi condannato “all’unanimità” a pagare all’attivista 9.800 euro: 2.000 euro a titolo di danno morale e 7.800 euro equivalenti alle spese legali.

Spiegando la sua decisione, la CEDU ha indicato che i tribunali francesi avevano pronunciato una «condanna sproporzionata» contro l’attivista Femen (un mese di reclusione con sospensione della pena e 2.000 euro di multa per blasfemia), sostenendo che non aveva considerato la questione della libertà di espressione durante la sua sentenza. «I tribunali nazionali non hanno trovato l’equilibrio, in maniera adeguata, tra gli interessi in gioco», considera la Corte. «L’ingerenza con la libertà di espressione del denunciante, sotto forma di pena detentiva, non era necessaria in una democrazia» e viola l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ha aggiunto la corte europea.

Alla CEDU sta diventando un’abitudine difendere questi attacchi compiuti nelle chiese e contro la Chiesa. Già nel 2018 aveva stabilito che la provocazione blasfema del gruppo punk femminista “Pussy riots” nel coro della cattedrale ortodossa di Mosca era una forma di espressione protetta dalla Corte. L’avvocato delle Pussy riots da allora è diventato giudice della CEDU. Lo stesso anno, la Corte aveva condannato anche la Lituania per aver sanzionato annunci blasfemi che raffiguravano Cristo e la Vergine Maria.

Ma la posizione della CEDU è molto diversa quando si tratta di Islam. Ricordiamo che, nel 2018, la CEDU ha sostenuto la condanna penale di un oratore austriaco accusato di aver equiparato il rapporto sessuale di Maometto con Aïcha, allora di soli 9 anni, a “pedofilia”. La CEDU aveva stabilito che questo oratore non cercava di informare obiettivamente il pubblico ma di «dimostrare che Maometto non è degno di essere venerato». A sostegno di tale condanna, la Corte ha ritenuto che parlare di “pedofilo” sarebbe una «una dolosa violazione dello spirito di tolleranza alla base della società suscitando pregiudizio e mettendo in pericolo la pace religiosa».

Come non vedere un “doppio standard”, unito a una cecità colpevole? L’oratore austriaco raccontava un fatto, mentre la Femen mirava a ferire e offendere. Perché condannare il primo e difendere il secondo? Non vedono i giudici di Strasburgo che ogni giorno in Europa le chiese vengono profanate, incendiate, le statue spezzate e le croci rovesciate? Non vedono l’incomprensione e l’odio verso Cristo e i cristiani diffondersi nella società? Come non percepire, in tutto questo “doppio standard”, un pregiudizio della stessa Corte?

(Fonte immagine: Flickr)


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