XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Vangelo Lc 15,1-32
Possiamo essere presi da un sotterraneo fastidio quando udiamo inviti perentori alla misericordia e al perdono, specialmente se abbiamo esercitato nella nostra esistenza una riflessione etica seria. Questo sentire ha radici lontane. Anche il senso di colpa, avvertito da chi si impegna in un agire secondo giustizia e compone a fatica la necessità di attribuire responsabilità e castighi con la mitezza e il perdono, rivela un conflitto mai sopito fra l’ideale greco-romano della giustizia e la mansueta immolazione di chi porge l’altra guancia. In altre parole riaffiora la difficoltà di temperare ira et clementia, ovvero di non correre il rischio che la benevolenza scivoli nel relativismo etico o nell’insignificanza del giudizio sull’agire.
Il poeta Giacomo Leopardi ci sorprende quando parla del carattere precocemente cristiano dei poemi omerici. Nello Zibaldone afferma che l’Iliade continua a interessarci «dopo ventisette secoli» per il fatto «strano e quasi assurdo che Omero in tempi feroci abbia tanto fatto giuocare la compassione nel suo poema» e che sia, tra tutti i poemi epici, «il poema più Cristiano». A parte le considerazioni di Leopardi, che possono apparire deboli, dobbiamo ammettere che in generale i pagani considerarono la mitezza e il perdono in maniera assai problematica. Alcuni filosofi greci avevano dato della misericordia un giudizio assai negativo, vedendola come una malattia dell’anima: la compassione appariva come una debolezza dell’uomo. La giustizia retributiva è il retto comportamento, mentre la misericordia riflette un modo irragionevole di sentire e agire. Questa osservazione è mitigata, talvolta, dall’invito alla clemenza, alla filantropia e alla benevola disponibilità ad aiutare gli altri.
Il problematico rapporto fra giustizia e misericordia viene ripreso dalle prime generazioni cristiane che si distaccano notevolmente dalla mentalità pagana a motivo delle parole del Signore, specialmente le tre parabole della pecora, della dracma e, soprattutto del figlio perduto e ritrovato dal padre. La Scrittura conosce due parole per indicare la misericordia: il primo indica propriamente la misericordia, il secondo la compassione, l’affetto verso chi si trova nella sofferenza e nel bisogno. Entrambi significano fedeltà all’alleanza e al patto. Nella prima lettura Mosé “converte”, per così dire, Dio alla misericordia e al perdono, facendo leva proprio sul fatto che il popolo, che ha peccato costruendosi un’immagine di Dio, è il “suo” popolo, legato a Lui da un patto che Egli stesso ha stretto: la fedeltà divina non viene meno di fronte al peccato e alla defezione degli uomini. Se l’uomo ritorna a Dio la sua misericordia diventa grazia che perdona. Dio ricco di misericordia diventa così di fronte all’uomo caduto nel peccato il suo Salvatore. Nel Nuovo Testamento la misericordia è l’opera del Padre che attraverso il Figlio salva gli uomini e li rende vittoriosi nell’ultimo giudizio (Tt 3, 4-6; Rm 9, 15-18).
In ogni caso le testimonianze neotestamentarie e i primi scritti cristiani ci mostrano la misericordia come una realtà che si offre in avvenimenti ed esperienze concrete: gli infermi invocano la guarigione da Gesù dicendogli di aver pietà di loro (Mc 10, 47 et al.); Paolo si sente toccato dalla grazia divina e invoca la misericordia per la casa di Onesìforo, che lo ha aiutato (2 Tim 1, 16-17).
Il vescovo Ignazio di Antiochia agli inizi del II secolo considera la prospettiva del martirio un dono della misericordia divina (Lettera ai Romani 9, 2): «Io mi vergogno di essere annoverato tra i suoi, non ne sono degno perché sono l’ultimo di loro e un aborto. Ma ho avuto la misericordia di essere qualcuno se raggiungo Dio».
La misericordia è pertanto la realtà di Dio che si comunica all’uomo. Scrive Agostino: «Vides Trinitatem, si caritatem vides – contempli la Trinità, se vedi la carità» (La Trinità VIII, 8, 12).
I Padri della Chiesa hanno sempre mostrato che l’esigenza della conversione è resa possibile dall’amore preveniente del Padre, che manda il suo Figlio nel mondo «non per giudicare, ma per salvare» (Gv 8, 15).
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