XXIII Domenica del Tempo ordinario – Vangelo Lc 14,25-33
La conoscenza è la chiave della vita. Sapere come funziona qualcosa, capire la personalità di qualcuno ci danno benefici pratici e vantaggi nelle relazioni. A volte la conoscenza può anche essere diabolica, perché volta a ottenere il male. La sapienza è qualcosa di più grande e profondo. Anzitutto la sapienza è difficile da trovare in noi uomini, appesantiti dal limite della nostra creaturalità che ci impedisce di vedere le cose nella loro pienezza e profondità, ma soprattutto a motivo del peccato, che come un acido ha corroso la nostra capacità di vedere, comprendere e dare un orientamento alla nostra esistenza.
Il libro della Sapienza dopo aver guardato alla nostra debolezza rivolge al Signore uno sguardo pieno di gratitudine: «Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?». Solo il Signore può nutrire e guidare la nostra conoscenza e permetterci di partecipare al suo sapiente disegno nell’orientare la creazione e le scelte umane alla verità, alla bellezza e al bene.
Gesù nel vangelo alla folla numerosa offre un modo concreto per entrare nel disegno sapiente di Dio: dare ordine all’amore. Il desiderio con cui noi guardiamo ai beni, ma soprattutto alle persone, ci permette di costruire la nostra vita, le relazioni familiari e l’intera società. Gesù sembra dirci di separarci, anzi letteralmente di “odiare” tutte le relazioni fondanti della nostra esistenza: padre, madre, moglie e figli, fratelli e sorelle e perfino la nostra stessa vita. Questo odio è l’opposto dell’amore, ma questa opposizione agli affetti più profondi e più sacri, è la condizione per seguire Gesù, per essere suoi discepoli, cioè avere parte alla sapienza divina.
Un poeta latino, Catullo, aveva intuito che nella relazione amorosa convivono realtà opposte, Odi et amo, una sorta di opposizione polare – secondo l’espressione del teologo Romano Guardini. Questa commistione di attrazione e repulsione è colta dal poeta pagano come un dato di fatto, privo di spiegazione, ma fonte di sofferenza. Il verbo usato (excrucior) non può non rimandarci al discorso che Gesù fa seguire immediatamente alle condizioni per essere suoi discepoli: occorre “odiare” gli affetti più cari per seguirlo, cioè si deve portare la croce, che è rinuncia a tutto per abbracciare l’amore totale del Padre.
Quest’odio misto ad amore nelle parole di Gesù trova la motivazione che il poeta Catullo non riusciva a ravvisare: solo amando Colui che è tutto si può crescere nella sapienza e ordinare il nostro attaccamento e affetto verso le creature nel modo in cui la Sapienza stessa le vede e le orienta al loro proprio fine. Per questo San Benedetto ha chiesto ai suoi monaci di non anteporre nulla all’amore di Dio, perché potessero vedere ogni creatura e se stessi con il medesimo sguardo di Dio. Divo Barsotti, mistico dei nostri giorni, ha espresso quest’idea con forte chiaroveggenza: “L’amore verso Dio non è l’annegamento dell’io nel nulla dell’incoscienza, è piuttosto la sostituzione divina ad ogni altro amore ed esige la stessa passione e la fa anzi più struggente, più assorbente, più forte, perché più profondo è l’abbraccio, più intima l’unione, più reale il possesso, e la realtà di Colui che si ama si fa sentire così potente all’anima amante che veramente ella più non conosce che Lui”.
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