«Sono sempre stata convinta che ogni persona debba decidere sulla propria vita e debba farlo anche sulla propria fine, senza costrizioni, senza imposizioni, liberamente, e credo di averlo fatto, dopo averci pensato parecchio, mettendo anche in atto convinzioni che avevo anche prima della malattia», con queste ultime parole Elena, sessantanovenne veneta malata terminale, ha deciso di morire in Svizzera accompagnata da Marco Cappato. L’ennesimo caso mediatico di fine vita sparato su tutte le reti. L’ennesimo caso di sofferenza arginata, messa da parte, ma fatta passare come l’unica soluzione dignitosa possibile.
Questa mattina si legge di tutto in giro, noi andiamo sul commento che ha rilasciato con un comunicato stampa Jacopo Coghe, portavoce di Pro Vita & Famiglia: «Sfruttando personali esperienze di sofferenza e dolore e confidando nella sponda compiacente di qualche giudice ideologizzato, come avvenuto nel caso di Dj Fabo, Marco Cappato mira a scardinare quella “tutela minima del bene vita” nell’ordinamento italiano che secondo la Corte Costituzionale vieta in Italia la soppressione o l’aiuto al suicidio di un individuo anche consenziente, se non entro specifici limiti posti dalla stessa Consulta che noi non condividiamo ma che nel caso in oggetto sono stati comunque palesemente travalicati. La magistratura deve intervenire per tutelare quei malati fragili privi di cure idonee ed efficaci che la campagna di Cappato rischia di influenzare portandoli a desiderare il suicidio o l’uccisione».
Questo è il punto. Mettiamo la nostra vita in mano allo Stato, ai giudici. Ma uno Stato che dice di mettere al centro il bene comune e poi propina la morte come soluzione alla fase finale della vita dell’uomo che tipo di Stato è? Prendiamo qualche dato significativo alla mano. Gandolfini nella sua memoria scritta presentata in Senato il 15 luglio scorso dà uno sguardo al fabbisogno in Italia di cure palliative. «Si calcola che dei decessi riportati, coloro che potevano aver avuto bisogno di cure palliative è una percentuale variabile dal 69% all’ 84%. […] Alla fine del 2017 si è giunti a 240 Hospice, per un totale di 2777 posti letto. Nel 2017 le persone ricoverate sono state 45572 con un incremento del 12,53% rispetto al 2014. Alla luce di questi dati il “tasso di copertura” (rapporto fra OFFERTA / BISOGNO) calcolato sulla base dei dati ufficiali è variabile dal 19% al 16% e sulla base dei dati stimati (rilevati empiricamente, e quindi più ottimistici) è fra il 28% e il 23%. Il che significa, ALTA DOMANDA e BASSO TASSO DI COPERTURA. Tanto per avere un termine di paragone, nel Regno Unito siamo al 78% e in Germania al 64% (ALTA DOMANDA E ALTO TASSO DI COPERTURA)».
Qualcosa sembra non funzionare. Appare evidente che in Italia mancano le cure palliative. Lo Stato e nello specifico i radicali di Cappato si preoccupano di far morire le persone mentre i dati ci dicono appunto che non accompagnano nella sofferenza, ma così si cerca solo la via più facile per togliere di mezzo il problema, anche economico.
Jacopo Coghe questa mattina dichiara a Il Timone: «Dopo aver ascoltato alcuni direttori di cliniche di Hospice ciò di cui non ci si rende conto è che molto spesso le persone gravemente malate quando chiedono il suicidio assistito chiedono in generale aiuto, attenzione, affetto». Quello che è un profondo grido di dolore viene preso per una richiesta di morte, «Noi come Stato, come società civile che risposta siamo in grado di dare? Noi crediamo fermamente che la risposta che dovremmo cercare di dare sia cercare di alleviare in tutti i modi le sofferenze proponendo un percorso di accompagnamento non solo del malato, ma anche di tutta la famiglia verso il fine naturale della vita», prosegue Coghe.
Ci si chiede l’Italia quali altri mezzi abbia a disposizione. «In Italia abbiamo una legge meravigliosa, la legge 38 del 2010, che potrebbe fare da esempio anche in tutta Europa. Propone l’accompagnamento della sofferenza del malato e di tutte le persone che gli sono attorno, anche con percorsi psicologici. Si oppone completamente al suicidio assistito». Sembra uscita fuori di scena, dimenticata e, come ci dice Coghe, anche «sotto-finanziata». Basti pensare che sarebbe previsto un determinato numero di figure specifiche per questi percorsi di accompagnamento al fine vita, ma che non esiste ancora il corso di studio che certifichi queste competenze. E se pensiamo anche alle percentuali c’è solo da rabbrividire: il 70% di persone che fanno richiesta di cure palliative non riesce a ottenerle.
Oggi l’immaginario di uno Stato con pieno potere decisionale sulla vita delle persone sembra essere la scelta migliore, più all’avanguardia. E in un momento di propaganda politica viene mostrata una sola faccia della medaglia, sempre quella di malati terminali portati a morire in altri Paesi senza mai parlare «delle persone che sono state curate e accompagnate. O di quelle che si sono risvegliate dal coma, che vengono curate in famiglia. Nessuno parla dell’accompagnamento. Perché è molto più facile presentare un caso mediatico sfruttato dai radicali che lucrano sulla pelle delle persone malate, piuttosto che attivarsi, finanziare una legge, cambiare mentalità all’interno del Paese e non confondere la soppressione della sofferenza con la soppressione del sofferente», commenta ancora il portavoce di Pro Vita.
Considerando poi che l’aspettativa di vita andrà sempre allungandosi l’effetto che si otterrà sarà una sorta di suicidio in serie e ce lo confermano i Paesi che sono più “avanti” di noi, «Una volta che vengono messi dei paletti, anche fossero i più stringenti possibili, mano a mano uno a uno cascano. E si potrà chiedere il suicidio assistito anche per una semplice depressione, o perché non ci si sente all’altezza degli standard che la società propone», prosegue Coghe. La realtà sottesa è un’altra, come dimostra per esempio uno studio in Canada che svela come «Grazie al suicidio assistito il servizio sanitario nazionale risparmierebbe centinaia di migliaia di dollari l’anno». Lo scrupolo nasce spontaneo, perché accompagnare alla morte costa – il posto letto, infermieri dedicati, strutture, psicologi – invece una siringa con un farmaco da 300 euro elimina qualsiasi costo per la società, allora il problema vero è «Verso quale orizzonte di società andiamo?», conclude Coghe.
Una società che scarta chi rimane indietro alla corsa verso l’efficienza e la massima prestanza fisica, una società che si strappa i capelli di fronte a bambini morti di stenti, ma che chiude un occhio su chi quegli stessi stenti li vive nella fase finale della propria vita.
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