L’ideologia Lgbtq+ è ormai un dogma: oltre a essere sempre più socialmente diffusa e acriticamente accettata nella società, dalle persone comuni, è anche ampiamente sdoganata nel mondo medico-scientifico, da parte di tutti quei professionisti che operano nel settore e che si sono arruolati nella propaganda e nel sostegno di quella che ormai è una vera e propria fiorente “industria transgender”. Il tutto, ovviamente, a scapito della deontologia professionale e dei dati scientifici. Ma tant’è…
A sostenere questa (netta) tesi è un recente importante studio pubblicato sul Journal of Sex & Marital Therapy (qui), condotto dal dottor Steven B. Levine, professore di psichiatria alla Case Western Reserve University che già nel 2020 aveva affrontato il tema in un’altra ricerca, e dai suoi colleghi, E. Abbruzzese e Julia W. Mason, dal titolo: Reconsidering Informed Consent for Trans-identified Children, Adolescents, and Young Adults (Riconsiderare il consenso informato per bambini, adolescenti e giovani adulti trans-identificati).
L’attenzione di Levine e dei suoi colleghi si concentra quindi sulla delicata fase iniziale del processo di transizione, ossia quel momento in cui le persone hanno il bisogno, ma in realtà anche il diritto, di essere informate in maniera imparziale, scientifica e completa su quanto stanno per andare a compiere e su quali sono le conseguenze delle loro scelte. Un momento che, come riporta Public Discourse, dalla ricerca emerge essere «troppo spesso più un esercizio di controllo delle caselle, che una discussione seria e una deliberazione»: il processo di valutazione del paziente è di scarsa qualità – spesso anzi viene totalmente by-passata la valutazione psicologica, semplicemente ci si fida del “sentire” dei giovani – e inoltre le informazioni fornite al paziente e ai familiari sono scarse e incomplete. Insomma: la transizione viene considerata alla stregua di un diritto qualsiasi, senza necessità di indagini particolari.
Nulla di nuovo, naturalmente, è la storia che si ripete: il parallelismo con un’altra tematica bioetica molto calda come quella dell’aborto viene fin troppo facile. Anche in questo caso, infatti, molto spesso le donne non sono correttamente informate sulla vita che sta crescendo nel loro grembo, sul fatto che dentro di loro vive un essere umano, il cui cuore spesso già batte, nel momento in cui si decide di “interrompere la gravidanza”.
Ma torniamo alla ricerca in esame. «Levine descrive una mentalità da selvaggio West nelle “cliniche di genere” in rapida proliferazione (incluse, sempre più, strutture di Planned Parenthood) che i genitori disperati consultano per gestire la disforia di genere dei loro figli». Sì, perché dal 2006 sono sempre di più i giovani che si identificano come transgender (si arriva anche a un 9% del totale) e, afferma ancora il dottore, «questo boom della domanda, unito all’assenza di standard ben ponderati di pratica etica, ha portato allo sviluppo di un nuovo “modello di assistenza al consenso informato”: in questo modello non sono richieste valutazioni della salute mentale e gli ormoni possono essere forniti dopo una sola visita dopo la raccolta della firma del consenso del paziente o del tutore… La fornitura di servizi di transizione nell’ambito di questo modello di assistenza è disponibile non solo per i maggiori di 18 anni, ma anche per i pazienti più giovani».
IL FENOMENO DEI DETRANSITIONERS
Nel frattempo, ovviamente per la gran parte sottaciuto, visto che i media mainstream sono notoriamente cassa di risonanza dell’agenda Lgbtq+, si sta allargando il fenomeno dei cosiddetti “detransitioners”, ossia persone che, dopo aver provato a “cambiare sesso”, e magari anche aver fatto delle terapie ormonali, o finanche degli interventi chirurgici in tale direzione, si rendono conto che in realtà il cambiare identità non era stato altro che un sotterfugio, un parafulmini dietro cui celare un malessere che “cambiando sesso”… è rimasto tale e quale. Anzi, magari si è pure acuito, nel tentativo messo in campo di andare contro la propria natura sessuata. Di qui la scelta di tornare sui propri passi, interrompendo o invertendo la transizione in atto, ovviamente sempre con molta sofferenza, e il rifiuto di riconoscersi ancora quali transgender. Prerogativa, quest’ultima, che tuttavia non sempre si verifica: vi sono anche coloro che continuano a riconoscersi trans, pur interrompendo il processo di transizione per cause esterne, di natura economica, familiare, o altro.
Ad ogni modo questo fenomeno – che ora si sta facendo sempre più evidente anche alla luce del fatto che sono molte di più le persone che (talvolta con leggerezza, talvolta con debolezza, di certo sempre mal consigliati e supportati) decidono di compiere il “percorso di transizione” – fa molto riflettere rispetto alla ricerca appena presentata: qui non si sta parlando di caselle da riempire, di noiosa burocrazia da sbrigare, si sta parlando di persone portatrici di una dignità immensa, e che come tali meritano ogni cura possibile, soprattutto in un momento di difficoltà. Anche alla luce delle evidenze, rilevate anch’esse nella ricerca da Levine e colleghi, che «gli interventi di affermazione del genere possono portare a miglioramenti in alcune misure di suicidio… né gli ormoni né gli interventi chirurgici hanno dimostrato di ridurre il suicidio a lungo termine».
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