Per uno strano caso del destino, la scomparsa del 98enne Eugenio Scalfari, avvenuta il 14 luglio scorso, ha preceduto di pochi giorni l’anniversario di morte dell’altra colonna del giornalismo italiano, Indro Montanelli, spentosi nella clinica Madonnina di Milano il 22 luglio del 2001, a 92 anni. Diversissimi quanto a idee e mondi di riferimento (per Marcello Veneziani «con Montanelli il giornalismo si fece arte, con Scalfari si fece esercizio sul potere: per colpire, affondare, pilotare, sostenere»), per una vita intera i due si sono annusati, incrociati, scontrati, rimanendo lontani anni luce. A iniziare dallo stile, pomposo il primo, asciutto il secondo.
«SEGUIRE COL CORPO LA SCIABOLA E PERDERE LA GUARDIA»
Lo sguardo che il giornalista toscano aveva per il “rivale” lo si coglie in modo definitivo nella sua autobiografia uscita postuma (I conti con me stesso, Rizzoli). A seguito di un’interminabile intemerata di Scalfari sull’Espresso (siamo ancora nel ’69, molte altre seguiranno), Montanelli sul diario annota queste parole: «Ho risposto a Scalfari. Era facile. Scalfari è uno di quei duellatori che, per imprimere più forza al fendente, seguono col corpo la sciabola e perdono la guardia. Ci vuol poco a infilarli». Due righe, sontuose quanto a tocco, che hanno il merito di raccontare Scalfari meglio di tanti affettati coccodrilli che in questi giorni hanno riempito i quotidiani. Righe che dicono l’ostinazione scalfariana a imporre una verità ad ogni costo, anche sbandando, e che spiegano prima del tempo, profeticamente, anche la sua ultima stagione intellettuale, quella “teologica”, quella in cui Scalfari è diventato amico di Papa Bergoglio (stagione rivendicata e sintetizzata a mo’ di tweet anche nel salotto televisivo di Giovanni Floris, quando il fondatore del Partito Radicale se ne uscì così: «Il personaggio che più mi interessa è Papa Francesco. Io mi occupo del Papa, che io chiamo un rivoluzionario e non un mistico, ed è talmente fondamentale che, debbo dire, di Renzi me ne frego»).
Benissimo l’afflato spirituale, tardivo come forse è fisiologico che sia, specie per chi ha scritto libri chiari fin dal titolo: L’uomo che non credeva in Dio; ma anche quel rapporto a tu per tu col Pontefice, con cui Scalfari aveva intavolato un discorso confidenziale e personalissimo, non era esente dalla lettura montanelliana. Che nel rapporto tra Scalfari e il Papa, infatti, fosse tutto un “perdere la guardia” lo sanno bene i capi della comunicazione della Santa Sede, che ad ogni intervista dovevano intervenire per puntualizzare che «malgrado le virgolette, quelle non sono parole dette dal Papa». Solo la rinomata egolatria del fondatore di Repubblica poteva inviare l’intervista al Pontefice allegando postille come questa: «Tenga conto che alcune cose che Lei mi ha detto non le ho riferite. E che alcune cose che Le faccio riferire, non le ha dette. Ma le ho messe perché il lettore capisca chi è Lei» (e forse, aggiungiamo, solo Papa Francesco, in un rischioso e benevolente slancio di empatia, poteva dare il placet alla pubblicazione).
Ma nella stessa pagina di diario, Montanelli si faceva intimo, riflessivo e scopriva altre carte, parlando dell’“avversario” (e forse parlando anche di sé). «Ma ora che ho spedito la replica», scrive il giornalista di Fucecchio, «mi chiedo se ho fatto bene. Di Scalfari non ho un’opinione precisa. [..] La sua ambizione è sfrenata e scoperta. Ma vuole arrivare a qualcosa, o vuole fuggire da qualcosa? Nella sua frenesia c’è del patologico. Le sue polemiche (come questa con me) sono quasi sempre gratuite. Questo nemico di tutti è soprattutto nemico di se stesso, animato da un irresistibile cupio dissolvi».
IL PARADOSSO TRA I DUE ATEI
Ma lo scetticismo machiavellico e nicciano che ha accompagnato la vita di Scalfari (e quella dell’Italia da lui forgiata), nei suoi ultimi anni è stato forse abbandonato, quando, appunto – interpretando le parole del rappresentante sulla terra di un Cristo in cui non credeva – il giornalista ha «ceduto all’altra parte di sé, quella della speranza e della possibilità che nelle parole dell’altro si aprisse una diversa giustificazione dell’esistente». Così Marco Testi, in un articolo che significativamente campeggia sul portale della diocesi ambrosiana. Montanelli, negli ultimi anni, ha invece più volte banalmente inneggiato all’eutanasia. «Deciderò io come e quando morire», andava dicendo pubblicamente (finalmente spalleggiato da tutta l’intellighenzia di sinistra). Ci si trova quindi davanti a un paradosso. Montanelli, un conservatore che chiude la sua vita cristianamente sulla difensiva; e Scalfari, apostolo del nichilismo più spinto, che si accommiata con una ricerca interiore non scontata, seppur disordinata e autoreferenziale.
QUESTIONI D’INVIDIA
La differenza – che attiene più alla genuinità e a una certa nobiltà d’animo – va quindi ricercata altrove. Per esempio nel fatto che la forma può diventare sostanza preziosa o piegare verso l’ipocrisia spicciola. È il 2 giugno del ’77, Montanelli riceve nelle gambe quattro pallottole calibro 9 da due brigatisti rossi, e ormai in un lago di sangue si aggrappa ad un cancello perché «devo morire in piedi». Il giorno dopo l’attentato, l’Indro nazionale annota sul suo diario «un articolo di Scalfari ancora più infelice di quello che scrisse dopo “Bontà loro” per chiedere la mia esclusione dalla tv nazionale. Sostiene la strana tesi che l’attentato è stato organizzato contro i nemici di Montanelli, cioè contro di lui, insinuando così il sospetto che me lo sia organizzato da me. Il mio successo lo riempie di un furore che lo fa sragionare».
Quando il fucecchiese viene a conoscenza delle voci che in quelle ore si occupano di lui – con Scalfari che infierisce per invidia; con il Corriere di Piero Ottone che titola «Attentati contro giornalisti» relegando il nome di Montanelli nel sommario; con alcuni salotti milanesi (quelli di Inge Feltrinelli e di Gae Aulenti) nei quali, scrive il giornalista, «si è brindato all’attentato contro di me e deprecato solo che me la sia cavata» – invece di scaldarsi, dal suo letto d’ospedale Montanelli frena, si fa cauto, giudizioso, oltremodo prudente. E acconsente alla voglia di Enzo Bettiza di rispondere agli attacchi ricevuti da Scalfari e da Ottone solo «a patto che mi mostri prima il testo: durezza sì, meschinerie no». Inutile aggiungere altro, qui viene fuori lo scarto non solo con Eugenio Scalfari, ma con quasi tutto il giornalismo del Novecento.
MORALISTI E FURFANTI
Eppure, incredibilmente, è proprio della “moralità” che si fa scudo il fondatore di Repubblica. È del ’93 l’ennesimo attacco scalfariano, questa volta mirato all’editore del rivale giornalistico, quel Berlusconi che con una «integrità morale vulnerata», fa risultare «indebolita la credibilità della stampa», e quindi anche del «controllo che essa deve esercitare sulla pubblica moralità». Alla pomposità dell’affondo, Montanelli prima chiede a Scalfari di occuparsi del “suo” De Benedetti (che «si trova gravato da una condanna a sei anni e mezzo per bancarotta fraudolenta»); poi ricorda al collega che «è stato un acceso fautore dell’onorevole De Mita. Senza mai turarsi il naso»; e alla fine (è l’estrema sua forma di difesa) aggiunge il pepe citando Ernest Renan: «Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante. Senza, per carità, allusione a Scalfari. Solo come promemoria».
«DORMIRE AVVINGHIATO A UN MOSTRO»
Scendendo ancora più in profondità, e per toccare davvero con mano la distanza tra Montanelli e Scalfari (non per forza qualitativa ma in ogni caso oggettiva), non c’è niente di più veritiero, dolente e spietato della fotografia che il giornalista toscano si fa alla notizia che suo zio Bibi, colpito da trombosi, è in coma. «Ora è lì, e non lo riconosco, tanto l’agonia lo stravolge. Invidio il dolore di mia madre, che lo accarezza e lo bacia in fronte: è un dolore semplice, autentico e disinteressato, come tutti i suoi sentimenti. Il mio, no. Non ho pena per lui. Ho pena per me, che non so come fare a meno della sua adorazione senza riserve. Ed è su di me che mi accorgo a un tratto di piangere, e mi odio».
In questo passo angoscioso e sincero – il cui dramma ci auguriamo possa essere colto anche da quegli “antifa” che con furia iconoclasta tornano periodicamente a imbrattare la sua statua – Montanelli non avrebbe potuto declinare meglio le parole di San Paolo: «Io faccio non quello che voglio ma quello che detesto». La sua confessione continua con ancora più dilaniante franchezza: «Nel pomeriggio, tornato a casa, scrivo un articolo per il “Corriere”. Lo scrivo con l’abituale concentrazione, che non s’incrina nemmeno quando mi telefonano che zio è spirato, e lo detto allo stenografo. Colette ha ragione quando dice che sono un mostro. Ma stanotte… Stanotte sarà una delle tante notti in cui mi sveglio di soprassalto, per l’improvvisa coscienza di dormire avvinghiato a un mostro».
I CONTI CON SE STESSO
Ecco, non sappiamo se Scalfari si riuscito a guardarsi dentro così, con questa autocoscienza bisognosa di redenzione, preoccupato com’era – scrive Pierluigi Battista – che il suo lettore partecipasse «ad un progetto politico collettivo», sapendo «quali libri leggere, quali film vedere per costruire la sua opinione». Al netto delle interviste a Papa Francesco, supponenti quanto fanciullesche, in ogni caso benvenute, non sappiamo se Eugenio Scalfari abbia fatto i conti con se stesso in maniera così dolorosa e franca. Ce lo auguriamo di cuore.
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