II domenica di Pasqua
Vangelo secondo Giovanni 20,19-31
Ci sono momenti per ciascun uomo, in me, in cui non c’è più luce. Quella luce che era la pelle del progenitore prima della caduta, quella luce che risplendeva nel volto di Mosè quando parlava con Dio tanto da diventarne riverbero, quella luce che sfolgorava sul monte della Trasfigurazione davanti ai tre discepoli abbacinati, sembra dimenticata. L’esperienza del male, del peccato o del dolore, mi fa obliare la memoria stessa di quella luce.
Questa ferita diventa distanza tra me e gli altri, innanzitutto. “Gli altri” potranno pur aver creduto, ma io no. Ho serrato le porte. Ho dettato le mie condizioni.
Ma è proprio lì che mi raggiunge Cristo. La Sua Risurrezione non è visibile con effetti di luce, esteriori. Egli irrompe proprio dove io sono asserragliato, chiuso “dentro”. E mi trascina dentro il Suo amore. La Sua vittoria sulla morte è attestata proprio dalla croce, dal Suo dono che si rinnova. Ma il Suo amore per me è questo entrare permanente, questo continuo irrompere – paziente – nella mia vita serrata dal male.
La Sua Risurrezione non è il ritornare alla vita di prima, ma è la vita con pienezza. E di quella vita io ho sete, ho bisogno, perché per quella io sono stato fatto, per quella io sono «formato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra» (Sal 139, 15).
Se il Nemico mi ha comprato per farmi suo schiavo, il Signore ha pagato il mio prezzo non per possedermi, ma per liberarmi, per riscattarmi. Il costato trafitto, cui tutti volgeranno lo sguardo («Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» Gv 19, 37, cfr. Zc 12, 10), è la porta per fare esperienza di questo amore, di questo prezzo, di questa vittoria che riguarda me, finalmente. È in questo momento per l’evangelista san Giovanni che Gesù dona lo Spirito Santo, “Dominum et vivificantem (che è signore e dà la vita)”. Introducendomi nel Suo amore crocifisso, mi spalanca la vita con pienezza e mi dona il perdono.
Nel Sacramento della Confessione, il Signore mi apre quel costato, mi fa entrare nella vita nuova attraverso il Suo amore vittorioso.
Il racconto del Vangelo che la Chiesa proclama oggi è in fondo la narrazione di una clamorosa resa: san Tommaso si arrende a Cristo, lo sconfitto vincitore; e così entra nella Sua pace. L’apostolo cede di fronte alla carnale evidenza di un amore che corrisponde e supera le sue richieste, che rompe ogni chiusura, sorprendendolo dentro la concretezza della sua vita, non spiritualizzando la vita o l’esigenza d’amore.
Ogni volta che siamo accostati da Cristo nella Riconciliazione, in fondo, capitoliamo di fronte a Lui: ci consegniamo per essere fatti nuovi, per essere riscattati, per uscire dall’Egitto dove siamo tenuti schiavi. E questa novità non la viviamo tanto vedendo Cristo negli altri (perché ci sarà sempre un peccato – nostro o loro – che ci renderà insopportabile questo esercizio), quanto guardando gli altri come Cristo guarda noi: con quella misericordia che oggi celebriamo come esperienza della Risurrezione.
E mentre i pagani di ogni tempo cercheranno sempre un nuovo padrone da servire come “dominus et deus noster” (“signore e dio nostro”), noi – vinti dall’amore che ci ha conquistati – ancora una volta, confessiamo Gesù Cristo, e solo Lui, «Mio Signore e mio Dio!».
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