Le scorse ore sono state caratterizzate da una polemica che, come noto, ha visto l’Ambasciata ucraina presso la Santa Sede contestare la decisione vaticana di far portare insieme la croce a una donna ucraina e una russa alla Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo, presieduta dal Papa. Il disappunto su tale scelta è stato espresso dall’ambasciatore Andrii Yurash. «L’Ambasciata ucraina presso la Santa Sede», ha scritto su Twitter il diplomatico, «capisce e condivide la preoccupazione generale in Ucraina e in molte altre comunità sull’idea di mettere insieme le donne ucraine e russe nel portare la Croce durante la Via Crucis di venerdì al Colosseo».
A seguire, sempre Yurash ha fatto sapere di voler lavorare «sulla questione cercando di spiegare le difficoltà della sua realizzazione e le possibili conseguenze». Da parte della Santa Sede però non si sono registrati dietrofront, anzi. Padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e personalità notoriamente vicinissima al pontefice argentino, ha prontamente replicato ricordando che «Francesco è un pastore non un politico. Agisce secondo lo spirito evangelico, che è di riconciliazione anche contro ogni speranza visibile durante questa guerra di aggressione definita da lui “sacrilega”. Per questo ha pure consacrato insieme Ucraina e Russia».
Il gesuita, facendosi interprete delle intenzioni pontificie, ha altresì segnalato che «le due donne, Albina e Irina, nel venerdì santo porteranno la Croce» ma «non diranno una parola. Neanche una richiesta di perdono o cose del genere. Niente». Ora, se le cose stanno in questi termini – e considerando che queste due donne non rappresenteranno di per sé alcun governo bensì i loro popoli, per citare ancora padre Spadaro, «scandalosamente insieme» -, viene davvero da chiedersi quale «preoccupazione generale» possa alimentare una Via crucis così organizzata. Anche perché tutto ciò alimenta un dubbio: se ucraini e russi non possono dirsi uniti ai piedi della croce di Cristo, quando e dove potranno mai esserlo?
La sensazione è che certi ambienti politici – anche ucraini, a questo punto – abbiano colto la palla al balzo per esprimere il loro dissenso non tanto verso il Venerdì Santo al Colosseo, bensì verso la linea del Santo Padre. Che dall’inizio del conflitto è stata chiarissima nel condannare tutto ciò che vi gravita attorno, dai massacri agli attacchi a civili, dalla corsa al riarmo alla sottovalutazione del potenziale dei negoziati. Una “terza via”, quella seguita dalla Chiesa, che evidentemente scontenta non solo certi funzionari di Kiev ma anche le grandi potenze occidentali le quali, pur manifestando quotidiana vicinanza al presidente Zelensky una “terza via” l’hanno comunque presa, disattendendo varie istanze di costui, a partire dalla no fly zone, pur richiesta in modo quasi ossessivo.
Solo, la “terza via” delle cancellerie internazionali non è evidentemente la stessa della Santa Sede, come mostrano per esempio le divergenze di vedute sul tema del riarmo. Una opzione che il papa ha sempre condannato non per compiacere qualcuno, tanto meno Mosca, ma solo perché è consapevole che in questo modo il conflitto non solo durerà più a lungo, ma il numero delle vittime – ovviamente anche civili – continuerà a crescere. Eppure quest’ultimo aspetto non sembra esser ben soppesato da tanti che lo ritengono, pur non potendolo dire apertamente, un sacrificio necessario. Peccato che nella storia ci siano stati dei precedenti di leader che consideravano qualche «migliaio di morti» inevitabili «per sedere al tavolo della pace»; e finì malissimo.
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