La grandezza di un giornalista non sta solo nel raccontare i fatti, ma pure nel fare in modo che le sue osservazioni su quei fatti possano restare valide nel tempo. È il caso di Dino Buzzati, scrittore e storica firma del Corriere della Sera morto mezzo secolo fa, il quale 68 anni or sono – il 3 aprile 1954, per l’esattezza – firmò un articolo che pare scritto oggi, per come fotografa il rischio dell’escalation nucleare cui potrebbe portare la guerra in Ucraina, che esperti come Germano Dottori, che trovate anche nell’ultimo numero del Timone, definiscono come pericolo «concreto».
L’attualità dell’intervento buzzatiano, intitolato suggestivamente «il vero pericolo», consiste nella descrizione che egli fa di come si possa arrivare ad una guerra atomica che, per l’umanità, sarebbe quella finale. Prendendo spunto da una bomba ad idrogeno fatta brillare a Bikini il 1° marzo di quel 1954, l’autore de Il deserto dei Tartari scriveva: «Il vero pericolo è il seguente: che ad un certo punto la bomba atomica non faccia più paura».
La scomparsa del timore di tale scenario – che, pur segnalato come concreto dagli esperti, dopo che Putin, lo scorso 27 febbraio, ha ordinato l’allerta del sistema di deterrenza nucleare, non pare inquietare come dovrebbe – ha per Buzzati una genesi psicologica precisa. «A un certo punto», scrisse, «dinanzi alla prospettiva della distruzione totale e immediata non di un quartiere, non di una città, non di una provincia, ma di tutto un paese, se non addirittura di un intero continente, l’uomo cessa di tremare o per lo meno avverte un senso di sollievo, di conforto, di liberazione. Subentra l’atteggiamento psicologico da “fine del mondo”».
Insomma, chiosava il grande scrittore bellunese, «guai se un giorno i capi non tramassero più al pensiero di una guerra e, guardandosi intorno, si accorgessero che nemmeno la gente ha più paura». L’atteggiamento con cui, tra invio di armamenti e sanzioni crescenti alla Russia, America ed Europa – ufficialmente per portare la Russia al dietrofront dall’Ucraina – stanno di fatto trascurando lo scenario di un Vladimir Putin che, esasperato, possa ricorrere al nucleare, senza dubbio, fa pensare che davvero oggi «i capi» non tremano «più al pensiero di una guerra». L’atteggiamento dei cittadini, in realtà – sondaggi alla mano -, sembra ben diverso, ma quello disinvolto di molti governanti, in effetti, alimenta preoccupazioni.
Rispetto a questo, oltre all’ammonimento di Buzzati, resta assai attuale anche quanto san Giovanni Paolo II disse in occasione del centenario della Rerum novarum, allorquando ammonì che, in ragione della tecnologia moderna e dei legami più stretti nel mondo, è divenuto molto più difficile – se non praticamente impossibile – limitare le conseguenze di una guerra. «Su tutto il mondo», furono le esatte parole del pontefice polacco in quel 1° maggio del 1991, «grava la minaccia di una guerra atomica, capace di condurre all’estinzione dell’umanità. La scienza, usata a fini militari, pone a disposizione dell’odio, incrementato dalle ideologie, lo strumento decisivo. Ma la guerra può terminare senza vincitori né vinti in un suicidio dell’umanità».
È un ammonimento più che valido, questo di papa Wojtyla – recentemente citato a sproposito da Joe Biden -, che però oggi, riproposto quasi quotidianamente anche da papa Francesco, non pare aver presa. Conseguentemente, l’odierna considerazione dello scenario atomico come possibilità, per quanto ci siano osservatori – come Edward Luttwak – che assicurano che la Russia non ricorrerà mai a tale estrema opzione, non può che inquietare. Perché, come denunciava Buzzati, il punto di non ritorno è proprio questo: quando, davanti all’apocalisse atomica, «l’uomo cessa di tremare»; e purtroppo non sembriamo esserne lontani.
Potrebbe interessarti anche