Oggi è la Giornata mondiale della Trisomia 21. Anche se non è il Doodle di Google a ricordarcelo – al contrario di quando ci tiene a commemorare il Pride (e non c’è neanche bisogno di specificare di quale Pride si tratti) – andiamo avanti lo stesso. Per quest’occasione alcuni dipendenti della Fondazione francese Jérôme Lejeune parlano delle difficoltà che incontra una persona con la sindrome di Down e di questa giornata in un’intervista al Die Tagespost. Per chi non lo sapesse, Fondation Jérôme Lejeune è riconosciuta come ente no-profit dal 1996 e opera a favore di persone affette da malattie genetiche, in particolare dalla sindrome di Down. Prende il nome dal professor Jérôme Lejeune, che nel 1959 insieme ad altri due ricercatori ne scoprì l’origine genetica.
La Fondazione Jérôme-Lejeune opera su scala europea e sono tre gli obiettivi che si prefigge: ricerca, assistenza e protezione della vita. Porta avanti e finanzia programmi di ricerca per lo sviluppo di terapie, in particolare l’Istituto Jérôme-Lejeune, il più grande centro di consulenza medica e paramedica in Francia, che si occupa di 10.000 pazienti. La Fondazione partecipa anche al dibattito pubblico sulla bioetica, condividendo le proprie competenze scientifiche e riflessioni etiche di fronte alle questioni che il progresso scientifico pone alla società.
Ogni anno la Fondazione celebra questa giornata scegliendo un particolare canale di condivisione. Quest’anno è la musica a fare da portavoce, attraverso il brano intitolato «Chercher pour soigner» (Ricercare per curare), accompagnato da un videoclip realizzato presso la Fondazione e l’Istituto Jérôme Lejeune. Protagonista della canzone è la storia intrecciata di tre persone: Tim, che ha la sindrome di Down, Marc, un ricercatore e Jiulie, una dottoressa dell’Istituto Lejeune. Vite in qualche modo lontane, capacità diverse, ma accomunate da un filo comune. Marc mette in campo le sue abilità per migliorare la vita di Tim, Julie sostiene lo studio di Marc con le sue competenze mediche. Entrambi sono mossi dall’amore, l’unico ingrediente per garantire una cura che sia garantita dall’inizio alla fine della vita. E Tim? Si chiede «Che cosa fate per me?», accogliete «il mio desiderio di andare avanti», citando il testo. Tim è lì a lasciarsi amare, a dimostrare ogni giorno di voler fare un passo in avanti.
L’intervista tocca anche note molto dolenti. Mette bene in chiaro come viviamo in un’epoca che intende con tutte le sue forze dedicarsi alla tutela dei diritti umani, alla non discriminazione, in nome di quell’uguaglianza riservata solo a destinatari prescelti e ben selezionati. Un’epoca che celebra tutti i giorni la cultura dell’essere diversi con slogan di ogni tipo. Mancano alcuni all’appello, però. Zona off-limits per l’accesso al mercato del lavoro o alla rappresentanza sociale e mediatica, per fare degli esempi. Non solo, alle persone con la sindrome di Down viene sbarrata la strada ancor prima di poterci camminare. Nello specifico viene riportato l’esempio della legge francese che «rappresenta oggi una minaccia permanente per queste persone. Gli esami prenatali consentono di rilevare anomalie allo stadio embrionale o fetale nell’utero materno. Queste conquiste tecnologiche non sono di per sé negative, ma rappresentano un pericolo per le persone affette da sindrome di Down: portano quasi automaticamente all’aborto. Un feto con la sindrome di Down può essere abortito fino al nono mese di gravidanza, cioè fino al giorno del parto! In Francia, il 96% degli embrioni ai quali viene diagnosticata la sindrome di Down vengono abortiti».
E in futuro la Francia alza ancora di più l’asticella del “progresso”. Ha in previsione di legalizzare la diagnosi preimpianto, «c’è da temere l’adozione di una legge in tal senso nella prossima legislatura», dichiarano nell’intervista per poi spiegare ai non addetti ai lavori :«La diagnosi preimpianto (PID) delle anomalie cromosomiche (tra cui la trisomia 21) non è diversa nell’ambito della fecondazione artificiale. C’è il rischio che gli embrioni affetti da trisomia vengano eliminati prima dell’impianto nell’utero materno, con conseguente scomparsa graduale delle persone affette da sindrome di Down». E l’Europa è pronta a unirsi al coro, «Lo screening prenatale è generalizzato e sistematico: è offerto alle donne incinte da tutti i medici. Alcuni politici definiscono l’obiettivo “zero nascite di persone con la sindrome di Down” e ammettono apertamente che la copertura totale da parte della previdenza sociale per lo screening, la diagnosi e l’aborto è meno costosa per lo Stato che sostenere finanziariamente una persona con la sindrome di Down per tutta la vita». Più chiaro di così.
C’è però qualcuno che ci prova a remare controcorrente. All’interno delle Nazioni Unite, la commissione per i diritti delle persone con disabilità ha ripetutamente denunciato queste forme moderne di discriminazione, più subdole ma non meno pericolose. «In un documento del 2017 il Comitato ha dichiarato che «le leggi che consentono espressamente l’aborto a causa di disabilità violano la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità. Di recente, la stessa commissione delle Nazioni Unite ha chiesto l’eliminazione degli stereotipi negativi che sminuiscono le persone con disabilità, in particolare per quanto riguarda l’uso dei test genetici prenatali».
Sembrerebbero quindi esistere diritti di serie A e di serie B. Esattamente quest’ultima è la serie che interessa a Chi vorrebbe gli ultimi come primi. E questo è l’unico appello che conta, al quale siamo davvero tutti presenti.
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