«Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui», questo versetto si incarna nella testimonianza delle studentesse nigeriane rapite quasi otto anni fa dal gruppo terroristico nigeriano Boko Haram. Ora che hanno appena vent’anni, le loro storie sono documentate in un nuovo libro, Bring Back Our Girls: The Untold Story of the Global Search for Nigeria’s Missing Schoolgirls di Joe Parkinson e Drew Hinshaw.
C’è da fare una premessa geografica e storica. Chibok, la città delle studentesse, si trova nel nord-est della Nigeria appartenente allo stato di Borno. Isolata dalle montagne, nel Settecento divenne un rifugio per chi fuggiva dai trafficanti di schiavi e fu una delle ultime località nigeriane a passare sotto il controllo britannico durante il colonialismo. La popolazione del nord della Nigeria è per la maggior parte musulmana, ma Chibok rappresenta un’eccezione, un po’ come quel “piccolo resto d’Israele” nel 1941 fu evangelizzata da una coppia di missionari statunitensi che convertì gran parte degli abitanti al cristianesimo. Da allora i diversi gruppi religiosi convissero abbastanza bene insieme, almeno fino all’arrivo di Boko Haram. Con il tempo i giovani del nord della Nigeria hanno cominciato ad avvicinarsi all’Islam radicale, come reazione alla grossa disoccupazione nella regione, oltre che ai contrasti tra gruppi etnici. Il religioso Mohammed Yusuf fondò Boko Haram a Maiduguri, il capoluogo del Borno: la parola “boko” significa “istruzione all’occidentale”, “haram” invece “peccaminosa”. Da lì un susseguirsi di uccisioni di religiosi musulmani moderati, attentati suicidi nei mercati, distruzioni di villaggi e rapimenti di bambini per farne soldati. Decine di migliaia di persone morirono e centinaia di migliaia fuggirono.
L’incubo delle studentesse è iniziato il 14 aprile 2014, quando membri armati del gruppo terroristico sono entrati nella città di Chibok, a maggioranza cristiana, per rubare nella scuola un macchinario per la produzione di mattoni. «Dopo aver svegliato le 276 ragazze dal sonno, hanno deciso di prenderle come prigioniere. Hanno bruciato la scuola prima di scomparire nella selvaggia macchia settentrionale». Quella scuola aveva tutto fuori posto, per i rapitori. Veniva insegnata la scienza, che secondo loro sarebbe dovuta sottostare alla sharia, e ragazze musulmane e cristiane studiavano insieme. Non sapendo cosa fare con le ragazze le misero alla mercé del capo Shekau, sarebbe stata sua la decisione. I genitori delle ragazze le hanno inseguite in moto e a piedi finché la pista non è sparita nella foresta.
Grazie ai diari di alcune di loro sappiamo oggi il capitolo successivo di questa storia da incubo. Le ragazze vennero portate nella foresta di Sambisa e furono divise tra cristiane e musulmane. Queste ultime furono obbligate a sposarsi con dei miliziani e lo stesso destino sarebbe stato riservato alle cristiane che avessero deciso di convertirsi all’Islam. E le altre? Ridotte a schiavitù, costrette a dormire all’aperto e a portare avanti lavori duri, oltre che a servire nelle attività domestiche il gruppo di Boko Haram.
Shekau provò a costringerle alla conversione – i quaderni delle testimoni furono dati loro per studiare – ma la maggior parte delle ragazze non accettò di inchinarsi. Nemmeno quando promise loro la libertà.
Ad attenderle c’era un colpo di scena provvidenziale. Un piccolo gruppo di attivisti nigeriani coniò, su consiglio di un avvocato alla quale attenzione avevano riportato il rapimento, un hashtag su Twitter chiedendo l’immediato rilascio degli ostaggi. Attraverso la diffusione sui social media, quell’hashtag è uscito dall’Africa occidentale fino a raggiungere Hollywood e catturare l’attenzione globale. Persone di tutto il mondo hanno iniziato a twittare così: #BringBackOurGirls. Lo slogan del gruppo divenne «Cosa chiediamo? Riportateci le nostre ragazze, ora, sane e salve!».
In poche settimane due milioni di utenti su Twitter hanno ripetuto la stessa frase, che causò l’interesse perfino della Casa Bianca. Quest’ultima nel frattempo chiese ufficialmente al presidente nigeriano Goodluck Jonathan di lanciare una missione di salvataggio per le ragazze e mandò una squadra di 40 funzionari, tra cui analisti della CIA e due dei migliori negoziatori dell’FBI ad Abuja. Inoltre i droni americani cominciarono a volare sopra le foreste del nord-est della Nigeria per trovare e osservare Boko Haram. Due anni e mezzo dopo, tra trattative e riscatti, delle 276 studentesse rapite a Chibok nel 2014, 163 sono libere oggi: 57 fuggirono poco dopo il rapimento e altre tre scapparono in seguito; 103 furono liberate grazie alla trattativa organizzata dalla Svizzera. Delle rimanenti 113, si stima che almeno 13 siano morte in cattività, mentre di quelle costrette al matrimonio, due sono morte di parto. Cento giovani donne sono ancora con i miliziani.
Il reportage del Wall Street Journal ha analizzato in lungo e in largo gli aspetti più oscuri della storia. Ma dalle interviste a una ventina di giovani donne si scopre il cuore pulsante della storia. La volontà di sopravvivenza andava di pari passo alla fortezza della convinzione religiosa. Per anni di prigionia, a rischio di percosse e torture, di notte sussurravano preghiere insieme o singolarmente e imparavano a memoria il Libro di Giobbe da una Bibbia di contrabbando. Nei loro diari segreti, hanno trascritto il capitolo 2 di Luca, perché si sono riconosciute nella sofferenza di Maria nel consegnare al mondo Gesù. Sono poi state ritrovate calligrafie tremanti di salmi come «Mio Dio, grido di giorno, ma tu non rispondi; Chiamo di notte e tuttavia non trovo riposo». Come i tre giovani nella fornace inneggiavano salmi, canti di lode, preghiere a Dio. Se ribaltiamo la storia e la osserviamo dalla prospettiva di chi cerca di mantenere un briciolo di fede, vediamo donne a cui stato donato di soffrire per Cristo. Donne che aggrappate alla loro fede hanno trovato la forza e la speranza. Donne che non hanno rinnegato il Signore, fino a trasformare la paura per i propri rapitori in timore dell’unico loro Dio. E questo mai nessuno potrà levarglielo.
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