La sensazione che la cancel culture e il politicamente corretto iniziassero a destare preoccupazione anche al di fuori del mondo dei conservatori, in realtà, c’è da tempo. Ciò però non toglie come faccia un certo effetto vedere come sia stato nientemeno che il New York Times, questo lunedì, ad ospitare sulle proprie colonne un intervento di questo tenore, e cioè contro la dittatura culturale che, da tempo, si va instaurando nei campus americani.
Il riferimento è ad un articolo a firma di Elena Camp, una giovane dell’Università della Virginia, eloquente fin dal titolo: «Ero venuta al college desiderosa di confrontarmi. Invece ho trovato l’autocensura». Citando quanto gli ha confidato un suo docente di sociologia, Brad Wilcox, la studentessa segnala come oggi gli studenti universitari abbiano «paura di essere visti sui social media dai loro amici» alla luce della cultura dominante, dato che ciò «che sentono dalla scuola, dai dirigenti e dai lavoratori sono» contenuti «progressisti».
A suffragio di questo, Camp ricorda come appena il 9% degli studenti abbia il coraggio di proclamarsi repubblicano; il che, se ci si pensa, è un dato impressionante, dato che, come noto, l’elettorato americano è spesso diviso a metà. La cappa di conformismo che aleggia all’università, riporta la giovane, inizia ad essere mal sopportata anche dai giovani progressisti. Il punto, secondo Camp, è che ormai non basta chiedere ai giovani di essere più coraggiosi, non più.
«L’attivismo di giovani come me serve a poco», ha infatti scritto, «occorre che le università prendano più posizione in favore della libera espressione. Le università dovrebbero rifiutarsi di cancellare oratori controversi o cedere a richieste irragionevoli degli studenti». Quest’ultimo, si badi, è un punto dolente, nel senso che è proprio in conseguenza delle segnalazioni degli allievi che tanti docenti, oggi, hanno paura ad esporsi o, se si espongono, finiscono poi col pagare caro le loro posizioni controcorrente.
I numeri, al riguardo, sono impressionanti. Chi ha provato a fare due conti ha infatti scoperto come, dal 2015 all’estate 2021, siano stati oltre 400 gli insegnanti e professori americani sanzionati o licenziati. Un numero notevole, degno della Corea del Nord, ed in continuo aumento. Ciò nonostante, che anche il New York Times – dove le opinioni fuori dal coro vengono pubblicate raramente, anche se ogni tanto succede – inizi ad occuparsi questo tema costituisce un elemento novità. La celebre testata, infatti, oltre ad essere notoriamente progressista, pare avere una linea editoriale a sua volta non esattamente pluralista.
Diversamente, non si spiegherebbe come mai non tanti anni fa ma nel luglio 2020, Bari Weiss, giornalista e scrittrice americana, se ne sia andata sbattendo la porta proprio dal New York Times, stanca del conformismo della mitica testata. Ne consegue come leggere su quelle colonne la pubblicazione della denuncia contro l’autocensura, nel mondo accademico, a firma di Elena Camp costituisca probabilmente il segno di un ripensamento. Forse, cioè, l’omologazione imperante che sta soffocando il dibattito accademico universitario inizia davvero ad essere esagerata.
Sfortunatamente, neppure l’Italia può dare il buon esempio al riguardo, come prova la recente vicenda di Alessandro Orsini, il direttore dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale dell’università Luiss, il quale, per aver ricordato in alcuni suoi interventi televisivi le responsabilità occidentali nel non aver evitato la guerra ucraina, come noto, è stato richiamato dalla sua università.
Tuttavia, lo si ripete, il fatto che anche il più celebre giornale del pianeta inizi a dare voce a chi segnala il bavaglio imposto – o che tanti, nel dubbio, ormai si mettono da soli -, nel mondo universitario, è senza dubbio una buona notizia; non per il fronte culturale conservatore, si badi, ma per quel principio fondamentale che si chiama libertà di pensiero e di espressione.
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