Molta acqua è passata sotto i ponti da quando la Corte costituzionale, con la sentenza n. 27 del 1975, dichiarò la parziale incostituzionalità dell’allora vigente art. 546 del codice penale, che prevedeva come reato l’aborto volontario, affermando che esso non poteva trovare applicazione quando il fatto fosse stato commesso per impedire la prosecuzione di una gravidanza comportante un «danno o pericolo grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre».
Può osservarsi (e fu anche osservato, all’epoca, da taluni commentatori) che, in realtà, sussistendo una situazione di «danno o pericolo grave per la salute della madre», l’aborto volontario sarebbe stato ugualmente non punibile, anche in assenza della pronuncia di incostituzionalità, potendo trovare applicazione la causa di giustificazione costituita dallo stato di necessità, quale prevista dall’art. 54 del codice penale. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 546 del codice penale, nei termini in cui era stata prospettata, e cioè nel senso della inapplicabilità, nel caso specifico, della suddetta causa di giustificazione, avrebbe quindi dovuto essere puramente e semplicemente respinta, magari invitando il giudice di merito, dal quale era stata prospettata, di riconsiderare le ragioni di quella pretesa inapplicabilità.
La Corte preferì, invece, la soluzione “di rottura”, a ciò indotta, con ogni evidenza, dall’intento, puramente politico, di aprire la strada a…
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