«Russo è stato un marito fantastico, premuroso, ha dedicato la vita nell’assisterla con un amore che ha colpito tutti. Nel 2002 scrivevo un film con Piero de Bernardi, che abitava vicino a loro. Lei stava già male, dall’attico vedevamo Roberto che ogni giorno la faceva passeggiare in terrazzo. Commovente». Sul Corriere della Sera di ieri, Carlo Verdone così ha parlato dell’indimenticabile Monica Vitti, scomparsa mercoledì all’età di 90 anni, e di suo marito Roberto Russo, fotografo e regista. Oltre a ribaltare la massima attribuita a Virginia Woolf, che vuole che dietro ogni grande uomo ci sia una grande donna (a volte accade anche il contrario), nelle preziose righe che Verdone ha affidato al quotidiano di Via Solferino c’è quello che le celebrazioni di queste ore tendono a dimenticare.
L’ultimo scatto di Monica Vitti risale al lontano 2002, quando l’attrice fu avvistata alla prima italiana del musical Notre-Dame de Paris. Sempre al fianco del marito Roberto Russo, che con amore e dedizione non si è mai stancato di proteggere da sguardi indiscreti il lento spegnersi di colei che la critica definì – dopo Alberto Sordi, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman – «il quinto colonnello della commedia all’italiana». Per vent’anni, poi, intorno a Maria Luisa Ceciarelli – questo il vero nome dell’attrice – era calato il silenzio, interrotto solo da false voci (quelle che fanno la gioia degli ambienti radicali) ancora una volta smentite con protettiva fermezza dal marito. «Più volte – così Roberto Russo – è apparsa in Rete la notizia secondo la quale mia moglie Monica sarebbe da tempo ricoverata in una clinica svizzera specializzata. Non capisco come sia nata e quale sia la fonte di questa fake news. Desidero pertanto smentire questa voce che con insistenza circola, rompendo per un attimo quella riservatezza da me tenuta in questi anni. Monica vive a Roma da sempre a casa nostra ed è assistita assiduamente da me, con l’aiuto di una badante».
Mentre in queste ore il mondo racconta lo smisurato talento della grande attrice italiana (impossibile non citare almeno il New York Times: «I suoi lineamenti taglienti e patrizi e il suo contegno gelido fornivano un contrappunto visivo e stilistico alla voluttà operaia delle principali attrici italiane dell’epoca, tra cui Sophia Loren e Anna Magnani»), qui si vuole porre l’attenzione sul marito, vera eminenza grigia di una storia d’amore che molto può dire al nostro tempo. Perché se è vero quel che dice Carlo Verdone, e cioè che Monica Vitti «non l’abbiamo vista invecchiare» (e quindi «meno male che esiste il cinema, che ci regala questa illusione di immortalità»), la realtà è che si invecchia e si muore (del resto lei è solo l’ultima delle nostre grandi stelle a lasciarci), e allora una presenza amorevole al proprio fianco può diventare vitale come l’aria che si respira.
La storia tra i due nasce nel 1983, lui ha 36 anni e con Monica Vitti gira Flirt (la cui colonna sonora sarà La donna Cannone, appositamente scritta da De Gregori per il film). Malgrado la differenza di età (sedici anni) Monica Vitti e Roberto Russo vanno avanti contro ogni maldicenza. Nel 2000, dopo ventisette anni di convivenza, decideranno anche di sposarsi. La malattia dell’attrice sopraggiungerà subito dopo, una tipologia di Alzheimer che finisce per sbriciolare la memoria (e le parole). In una recente intervista il marito ha confidato candidamente: «Ci parliamo con gli occhi». Non serve molto altro per capire che questa storia d’amore – specie in tempi di rumorose sirene eutanasiche – è l’ennesima conferma che non esistono malattie incurabili, esistono solo malattie inguaribili, nelle quali occorre “prendersi cura”.
Di perdita della memoria, come una specie di premonizione della malattia incipiente, parlò la stessa Monica Vitti nel suo Sette Sottane, libro del 1993, in cui in un passaggio dai contorni danteschi, in cui la vediamo quasi trasumanar, l’attrice scriveva: «Ad un certo punto della mia vita, a mia insaputa, devo aver deciso di dimenticare. Non dimenticare i dolori e gli errori, ma dimenticare fatti, persone, forse solo confondere tutto. [..] Ormai io so cosa sono il bene e il male. [..] Non sto perdendo la memoria e la coscienza, ma le sto ritrovando». Abituata alle luci della ribalta (cinque David di Donatello, tre Nastri d’argento, dodici Globi d’oro, un Orso d’argento a Berlino e un Leone d’oro alla carriera a Venezia) Monica Vitti, all’improvviso, si è trovata nell’impossibilità prima di ricordare e poi di parlare. Poteva comunicare solo con gli occhi. Proprio lei, che con la sua autoironia amava definirsi «presbite, miope, astigmatica, ipermetrope e ipersensibile». Mistero.
Ieri, ad accogliere il feretro nella camera ardente allestita in Campidoglio, erano presenti il sindaco di Roma e le massime autorità. Ai piedi della bara un mazzo di fiori avvolto nella pagina del Manifesto, il quotidiano che ha indovinato il titolo più bello: «Ma ‘ndo vai» (il riferimento è al motivo cult di Polvere di Stelle, spumeggiante commedia al fianco dell’amico fraterno Alberto Sordi). Accanto alla bara, una foto che immortala il suo volto, bellissimo e lontano anni luce da ogni standard.
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