Barbara e Paolo sono innanzitutto una coppia di sposi e parte del romanzo ruota intorno a questo dato. Un elemento che emerge gradualmente ed inesorabilmente, come centrale e determinante su ogni altro aspetto della loro vita e del loro nobile operato e che da un libro che sembrerebbe parlare di missione non ci si aspetta.
Si scopre, infatti, che la terra di missione vera, non è banalmente quella su cui operano i due protagonisti, ma molto di più: le loro stesse vite, a partire dai nodi esistenziali della protagonista, messi bene in evidenza, sin dalle prime pagine del romanzo e che poi, nel corso della storia si sciolgono. L’autrice, Susanna Bo che ha già all’attivo altre pubblicazioni, tutte per San Paolo Edizioni (“La buona battaglia. Le grandi acque non possono spegnere l’amore” e “Finché c’è qualcuno da amare”) ce ne parla in questa intervista.
“Vengo con te” è un libro ispirato alle vicende di una coppia di missionari, ma Lei dice che la vera storia è un’altra. Quale?
La vera storia di “Vengo con te” è la storia di un uomo – e soprattutto di una donna – che, facendo una scelta controcorrente, umanamente irragionevole e unicamente spiegabile alla luce della Fede, scoprono che la prima terra di missione, quella più importante da salvare, è innanzitutto la loro storia personale. Infatti in “Vengo con te” Paolo e Barbara partono per l’estremo oriente da salvatori, e ci rimangono da salvati. E’ quindi soprattutto una storia di guarigione affettiva.
Di romanzi d’amore, oggi ce ne sono tanti, in cosa si distingue il Suo libro, rispetto agli altri?
Forse l’elemento di novità in “Vengo con te” è proprio il fatto che, attraverso la guarigione affettiva che entrambi i protagonisti intraprendono, vi è anche la riscoperta del loro matrimonio: infatti, quel desiderio che li ha portati a diventare missionari, è in fondo lo stesso che li aveva spinti a scegliersi e ad amarsi. Ed è lo stesso desiderio se vogliamo, che sta alla base di ogni vocazione.
La missione, qualunque essa sia, può diventare, quindi uno strumento salvifico, innanzitutto per sé stessi?
Certamente. Conoscere e raccontare la storia di Paolo e Barbara, a livello personale, mi ha confermato che essere missionari è innanzitutto amare Cristo, la nostra vita e soprattutto, come suggerisce a un certo punto della storia un personaggio del libro alla protagonista, mettere amore in quello che facciamo. In tutto quello che facciamo. Sia esso lavorare, studiare, accudire la famiglia o fare i missionari dall’altra parte del mondo. Ognuno di noi dove Dio lo chiama.
Perché ha voluto scrivere questo libro?
Perché, per tutta una serie di fatti e di circostanze che mi hanno legato ai protagonisti della storia, ad un certo punto è mi diventato incredibilmente chiaro come anche per me, come scrittrice, c’era una chiamata: quella di narrare, con più sincerità possibile e al meglio delle mie possibilità, la storia di questi due miei amici e fratelli nella fede. Perché la storia di Paolo e Barbara, che sono davvero, pur nella loro estrema normalità, due persone fuori dal comune, meritava di essere conosciuta e amata.
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