10 ottobre, India. Tra altri cattolici, anche due suore, suor Gracy Monteiro e suor Roshni Minj, della Congregazione delle Orsoline Francescane, vengono trascinate alla stazione di polizia da una folla di estremisti indù, dove vengono trattenute per diverse ore. L’accusa nei confronti delle due consacrate? Il fatto che indossando l’abito religioso “costringevano” alla conversione al cattolicesimo. Questa la versione dei fatti riportata da AciStampa, che riporta anche le parole di Sajan K. George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic): «Il fatto», ha affermato, «che anche le suore siano state attaccate rivela una nuova e spiacevole evoluzione nell’attuale ondata di persecuzione anticristiana». Per poi proseguire: «Nell’attuale clima politico indiano, indossare l’abito da suora significa essere riconosciuto come “bersaglio” o “agente di conversioni” dai vigilanti di destra».
INDOSSARE L’ABITO È ININFLUENTE?
Questa vicenda mette in luce un (ennesimo) paradosso.
Volgiamo qui lo sguardo ai sacerdoti, in quanto maggiormente interessati dal processo di modificazione nell’abbigliamento rispetto alle suore, che nella maggior parte dei casi si sono “limitate” a togliere il velo dal capo ma che rimangono in larga misura assai distinguibili.
Oramai da decenni, in Italia ma non solo, l’abito talare è stato dismesso in favore del clergyman, nel caso migliore, oppure in favore di abiti comuni, che vanno dalle camicie (solitamente scure o bianche, ma talvolta anche hawaiane) a semplici magliette polo. Si è ritenuto che questa uniformizzazione dei sacerdoti alla gente comune favorisse l’incontro, il dialogo, desse prova di un’apertura. Ma non tutti la pensano così, e in questo sta il paradosso: come emerge dalla vicenda riportata in apertura, la talare non solo non è un ostacolo alla fede, ma anzi svolge addirittura una possibile funzione di riavvicinamento alla Chiesa, di conversione del cuore e della mente.
Quale riflessione si può trarre da tutto questo, quindi? Prima di avanzare una proposta di lettura, è necessario fugare forse la più immediata e probabile obiezione che, parafrasando un noto proverbio popolare, ruota attorno all’affermazione che «l’abito talare non fa il prete». Questo è vero ed è sotto gli occhi di tutti, nella consapevolezza che la Chiesa è abitata da uomini per loro stessa natura limitati. Tuttavia la realtà ci dice anche altro: stando alle testimonianze, ma anche all’esperienza personale di ognuno, è innegabile che vedere un prete “vestito da prete”, soprattutto nel contesto odierno in cui è un’evenienza sempre più rara, è fonte di riflessione anche per chi è lontano dalla fede, è una sorta di “segno distintivo” che funge da testimonianza pubblica di fede e rimanda a un ruolo ben preciso e chiaro nella mente di ognuno. Tanto che, talvolta, ovviamente con la Grazia di Dio, l’incontro anche fortuito con un prete vestito in talare può anche in un dialogo, in un riavvicinamento alla Chiesa, a Dio.
Tornando quindi all’obiezione iniziale rispetto all’abito: non è la talare a fare un buon sacerdote, su questo c’è poco da discutere, ma è altrettanto vero che questo non dipende dall’abito in sé, quanto dalla dignità e dalla consapevolezza con cui questo viene portato. La talare non è un orpello, come non è tale la divisa per un poliziotto o per un pompiere oppure un camice per un medico o un infermiere: la talare è un segno di riconoscimento e di testimonianza di fronte al mondo di un ruolo che l’eletto del Signore è stato chiamato, vocato, a svolgere «in aeternum»; e, di contro, è anche un monito per chi la indossa, affinché non dimentichi il suo essere pastore di tutte le pecorelle del Signore in ogni attimo della propria esistenza.
Ecco, quindi, che portare o meno il lungo abito nero non è una scelta ininfluente, né per il mondo, né per il prete stesso.
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