VIAGGIO A KABUL
Esistono soltanto tre sentieri che oggi portano a Kabul, almeno fino a quando l’aeroporto della capitale non riaprirà i voli internazionali. Via l’Uzbekistan, via il Tajikistan oppure via il Pakistan. Atterrare in uno di questi Paesi limitrofi con l’Afghanistan significa attraversare il confine via terra, viaggiare in macchina per centinaia di chilometri, superare check-point, fare i conti con l’irrazionalità del vuoto.
E il vuoto qui è una elemento abissale di spazio e di tempo. Valli, montagne, laghi, gole. Per ore e ore. Occorre indossare la shalwar kameez, il tradizionale abito afghano, porre intorno al collo una kefiah colorata, e poi restare in silenzio, fino a quando non si raggiunge Kabul.
Il mio viaggio parte da Termez, in Uzbekistan, attraversando a piedi il ponte dell’amicizia costruito dall’Unione Sovietica nel 1982 che collega le due sponde dell’Amu Darya, il fiume più lungo dell’Asia Centrale. Sul lato uzbeko, i militari lasciano passare senza problemi, il vecchio visto afghano, quella della Repubblica, l’unico al momento diffuso, sembra sufficiente. I veri controlli iniziano sul lato afghano. Un cartello con scritto “Welcome to Afghanistan” accoglie i viaggiatori solitari, e i treni che trasportano merci. Più avanti c’è un gabbiotto. “Da questa parte”, indica un locale, zoppicando. Una piccola stanza con poche sedie. È l’anticamera dell’ignoto. Si apre un’altra porta, è lì che si controllano i passaporti. Dietro la scrivania c’è un talebano, giovanissimo, uno dei tanti studenti usciti dalle madrase, le scuole coraniche. Capelli lunghissimi, sul capo è poggiato il tradizionale berretto pashtun ricamato, diverso dal pakol di lana. I suoi occhi non si incrociano mai con i miei, nemmeno quando vengo invitato a entrare. Sfoglia le pagine, guarda tutti i visti di ingresso, ricomincia dall’inizio. Su un foglio di carta scrive i dati personali, poi torna a pagina 37, dove c’è il mio visto afghano, lo guarda attentamente, lo tocca con entrambe le mani, ancora a pagina 45, dove c’è il timbro di uscita uzbeko.
Ci pensa, qualche secondo. Per la prima volta mi guarda, alzando gli occhi, lentamente, senza muovere la testa. Gli occhi marroni scuri, sono scontornati dalla matita nera. Abbassa lo sguardo, scrive qualcosa su un altro pezzetto di carta. Toc! E’ il rumore del timbro che sbatte a pagina 37. Sono ufficialmente in Afghanistan, sono dentro all’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Fuori da quel gabbiotto è stata issata la bandiera bianca con la shahada stampata in nero. I talebani sono davvero tornati al potere.Ad aspettarmi alla frontiera c’è il mio fixer con l’autista. Lo avevo conosciuto tre anni fa a Mazara Sharif. A metà agosto telefonai su Whatsapp per sapere come stava. “Sto bene, non ci sono morti né feriti qui, non ho sentito nemmeno un colpo di arma da fuoco, mi sono svegliato al mattino e i talebani erano dappertutto”, mi raccontò. Gli avevo promesso che avrei fatto di tutto per raggiungerlo. È lì in Asia Centrale che vive il Re del Mondo, è lì che bisogna essere. Fui di parola, ora ci aspettavano dieci ore di macchina per arrivare a Kabul.
KABUL
Kabul, un formicaio. L’impatto con la capitale è sorprendente dopo aver visto quelle immagini tragiche in televisione durante le evacuazioni. Traffico nelle strade, negozi aperti, bambini a scuola, bambini che chiedono le elemosine, fissandoti diritto negli occhi, uomini e donne velate a passeggio, talebani ovunque, talebani in pick-up che pattugliano strade e piazze. Una calma però che è solo apparente, perché in alcuni quartieri sono previste manifestazioni. Dicono nei quartieri poveri dagli hazara, la minoranza afghana di confessione sciita, altri sostengono che si svolgeranno nel quartiere delle ambasciate. Qualcosa sta cambiando nell’aria. Le autorità talebane hanno fretta di annunciare il governo, nel Panjshir si combatte ancora. Persino la Brigata Badri 313, il corpo speciale dei talebani, armato ed equipaggiato di tutto punto, si è spostato dalle aree di conflitto a Kabul e vigila nello spazio pubblico. Improvvisamente la tensione è aumentata, e di fronte alla caduta ufficiale del Panjshir, è insorta una parte importante della società civile.
Dalla resistenza armata si è passati a quella civile, pacifica. È il 7 settembre quando uomini e donne, qualche centinaio, coraggiosissimi, scendono per strada, contro l’ingerenza del Pakistan negli affari interni afghani, e a sostegno dei seguaci di Massoud dati per sconfitti in conferenza stampa dal portavoce Zabihullah Mujahid anche se in realtà pare si sarebbero rifugiati nelle montagne per organizzare la contro-guerriglia. Le autorità lasciano fare i dimostranti, questi si moltiplicano, i giornalisti locali e occidentali li raggiungono e iniziano a diffondere le immagini. È è in quel momento che scatta l’ordine da parte dell’apparato di sicurezza di disperdere la folla, se necessario con la violenza. Viene mobilitata una colonna di pick-up dei talebani per raggiungere i manifestanti in coda, e colpirli alle spalle. Munito con il mio certificato da giornalista rilasciatomi dal Press Office dell’Emirato, sono di fronte a loro quando saltano giù dai veicoli con foga e cominciano a sparare raffiche di mitra in aria. Alcuni colpi trivellano le finestre di un hotel, che viene evacuato dal personale di sicurezza. Ci buttiamo tutti, manifestanti, giornalisti, persone di passaggio, ai lati della strada.
C’è chi si ripara dietro alle automobili, chi come me riesce a entrare dentro il primo edificio con il cancello aperto. Alcuni colleghi vengono arrestati e sequestrate loro le attrezzatture. Nel palazzo in cui mi sono rifugiato parte la caccia all’uomo, pensano che tra noi ci sia uno degli organizzatori della protesta. Venti uomini, con mitra puntato ad altezza uomo, irrompono, poi vengono richiamati da un comandante e invitati a lasciar perdere. È in questo clima, che il giorno successivo, viene annunciato il nuovo governo provvisorio. Un governo duro e puro, di “compromesso” talebano. (01 – segue)
Potrebbe interessarti anche