«Come il 1914 ha segnato l’ingresso nel XX secolo, l’11 settembre 2001 ha introdotto l’umanità nel XXI secolo». Il politico francese Jean-François Deniau ha soltanto detto meglio di altri quanto quella mattina di vent’anni fa è apparso immediatamente chiaro: gli attentati con cui due kamikaze islamici uccisero 2.977 persone sono stati uno spartiacque della storia. Niente di meno. Consapevoli che qualsiasi parametro che tentasse di fornire le dimensioni dell’evento risulterebbe parziale, non è inutile ricordare – a beneficio soprattutto delle giovani generazioni – che il cataclisma che si sprigionò in quella mezzora (la prima torre crollò alle 10.07, la seconda alle 10.27) fece sì che per rimuovere i detriti ci vollero ben 261 giorni e oltre 1,5 milioni di ore di lavoro. Forse ad un adolescente di oggi colpisce di più sapere che la più giovane tra i passeggeri dei voli dirottati, Christine Hanson, aveva solo due anni e stava andando per la prima volta a Disneyland. O che nelle operazioni di salvataggio morirono 343 vigili del fuoco. Chissà.
«I più coraggiosi di New York»
Il motto del “New York City Fire Department” (NYFD) è New York’s Bravest. E negli USA nessuno mette in dubbio che siano stati davvero I più coraggiosi di New York quei pompieri spariti nella polvere per salvare dalle fiamme gli intrappolati. Verità vuole, però, che nel ricordare quella tragedia epocale ogni parola rischia di suonare imperdonabilmente retorica. Bene ha fatto allora il New York Post a escogitare la miglior operazione culturale possibile. Lo storico tabloid newyorkese – sesto giornale americano per tiratura – ha chiesto a sessantacinque figli di vigili del fuoco morti negli attacchi terroristici, e a loro volta pompieri del NYFD, di posare per una foto e di condividere i ricordi più significativi dei loro coraggiosi papà. Ne sono usciti bozzetti commoventi, vividi, virili. Molti di loro – che all’epoca dei fatti avevano anche solo 5 o 6 anni – hanno ammesso che lavorare come vigili del fuoco, a volte addirittura nella stessa caserma e indossando lo stesso distintivo dei loro padri, equivale ad avere «un angelo custode che veglia su di noi».
Col papà tatuato sul braccio
Riflesso di quel melting pot che è proprio della città di New York, tra i figli degli eroi dell’11 settembre ci sono anche diversi oriundi italiani. Anthony Ragaglia sul suo braccio sinistro ha fatto incidere i momenti di felicità condivisi con suo padre, Leonard Ragaglia, perso nell’inferno di Ground Zero a 7 anni. Nei mosaici del puzzle che compongono il ritratto di papà Leonard sono raffigurati il baseball e l’hockey, gli sport delle squadre allenate da suo padre, ma anche i videogiochi con cui padre e figlio si divertivano insieme, e «l’auto giocattolo con cui mi trasportava in giro per la casa». «Era un padre molto dolce. La cosa che ricordo di più è l’attesa del suo ritorno a casa da lavoro, era il momento in cui potevo saltargli addosso», ricorda Anthony, diventato vigile del fuoco per «onorare mio padre e renderlo felice».
Quel distintivo nella tasca di Bush
Il distintivo della polizia portuale in possesso di Chris Howard è solo un duplicato. Quello originale, di suo padre George, specialista in servizi di emergenza, è stato otto anni nelle tasche di un presidente degli Stati Uniti. «Quando il presidente Bush è arrivato in città, il 14 settembre, ha voluto incontrare tutti coloro che avevano avuto i membri della famiglia dispersi o uccisi nelle azioni di salvataggio», ha raccontato Chris. «Abbiamo salvato il distintivo e mia nonna… lo ha messo nella mano del presidente Bush, che per il resto della presidenza lo ha sempre portato con sé». L’11 settembre 2001 George Howard aveva il giorno libero, si precipitò comunque al World Trade Center per aiutare le altre squadre. È morto sotto le macerie della Torre Nord quando suo figlio aveva 18 anni.
L’immaginetta sul casco
L’emozionante reportage comprende anche i ricordi di quei figli che hanno visto morire i loro padri per malattia (quasi sempre tumori) dovute al fumo e ai detriti tossici di Ground Zero. È il caso di Edward T. Meehan, che al NYP racconta: «Ero in uno strano stato d’animo dopo la sua morte, credo si trattasse di un po’ di depressione. Non avevo una direzione, nessuno scopo nella vita. I vigili del fuoco si sono rivelati l’“ambiente” di cui avevo bisogno». Meehan racconta di aver abbandonato la sua vita in California per stare con suo padre, il tenente Edward Meehan, a cui era stato diagnosticato un cancro a causa delle inalazioni tossiche, e di aver sostenuto, nel 2017, il test per entrare nei vigili del fuoco solo «per il gusto di farlo». «Sono stato con lui ogni giorno negli ultimi due o tre mesi di vita, un periodo di tempo che mi ha dato molto», ha riferito Meehan, il cui padre è morto nel febbraio 2018, proprio mentre veniva valutato il suo test d’entrata. «Non aveva idea che un giorno mi sarei unito anch’io al New York City Fire Department». Un’immaginetta di suo padre fatta stampare per il suo funerale è oggi nascosta nel casco di Edward, mentre lui continua a lavorare al “Distaccamento 34” di Manhattan.
Onore al pompiere umorista
Il tenente Robert F. Wallace è stato ucciso mentre si arrampicava nell’inferno del 78° piano della Torre Sud. «A volte, sul lavoro, mi sono trovato in situazioni in cui gli ho parlato: “indicami la strada, mostrami cosa fare”. È una iniezione di fiducia sentirlo con me», ha spiegato Robert Wallace jr, figlio 39enne, che è anche nipote e pronipote di vigili del fuoco di New York. Suo padre, ha aggiunto al NYP, «tra tutti i suoi colleghi era quello con il più grande senso dell’umorismo». La sua gag più riuscita consisteva nel fissare e poi indicare un punto nel cielo fino a quando qualcuno non allungava il collo per capire cosa stesse guardando. Ovviamente non c’era mai nulla. «Dopo la sua morte, per ricordarlo e rendergli omaggio, proprio sul cratere del World Trade Center i suoi colleghi si sono scattati l’un l’altro delle foto, indicando un punto in alto nel cielo».
Il terrorismo è sconfitto
Molte analisi sono state fatte sulle conseguenze economiche e politiche degli attentati dell’11 settembre, e molte altre se ne faranno per questo ventennale, ma le storie di dolore, coraggio e speranza squadernate da inchieste come quella appena raccontata dimostrano in maniera inequivocabile una sola cosa: il terrorismo ha fallito, almeno nella sua sfida più profonda e minacciosa. La voglia di vivere, i legami familiari, la riconoscenza verso gli affetti più cari rimangono più forti della morte, mentre la gratitudine verso certi padri conferma le parole di G.K. Chesterton: «La misura di ogni felicità è la riconoscenza».
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