L’allergia europea e specie francese ai simboli religiosi – in omaggio, come noto, alla venerata laïcité – non è certo una novità. Eppure, se il pregiudizio laicista può ancora essere combattuto e, quel che è più interessante, battuto. Questo, almeno, testimonia la vicenda, ripresa anche da Le Figaro, di un prete d’Oltralpe che prima dell’estate aveva richiesto un documento di identità ai servizi della prefettura. Congiuntamente a tale richiesta, il sacerdote cattolico aveva fornito una propria fototessera in cui sfoggiava il colletto che si conviene al suo ruolo: insomma, dalla foto si capiva che si trattava di un prete!
Nulla di così scandaloso evidentemente, anzi. Ma non per l’ufficiale della prefettura che, esaminata la foto, ha ritenuto come essa – data la palese connotazione religiosa del colletto romano – fosse incompatibile con le disposizioni di legge. Di fronte a tale diniego, il sacerdote tramite Laurent Delvolvé, il suo avvocato, ha fatto immediatamente ricorso. Tale opposizione è stata motivata sia sul fatto che il decreto del 22 ottobre 1955 sulla carta d’identità nazionale non menziona i simboli religiosi, sia sulla base di una violata libertà di culto.
Ebbene, le istituzioni hanno dovuto ammettere l’errore riconoscendo la liceità della fototessera della discordia, dato che la pur severa legge francese vieta sì i simboli religiosi: ma solo quando impediscono l’identificazione di un soggetto. Non era questo, però, il caso del sacerdote che, quindi, ha potuto far valere le sue ragioni. Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Sì e no. Infatti, se da un lato non si può che esprimere un plauso alla determinazione di questo sacerdote, che ha saputo condurre fino in fondo una piccola anche se significativa battaglia per la libertà di religione, dall’altro da questa vicenda resta comunque una nota amara.
Ci si riferisce, qui, al fatto che se il prete in questione non fosse stato tosto e battagliero come si è rivelato, tutta la storia avrebbe potuto avere un esito diverso. E a spuntarla, naturalmente, sarebbe stato il laicismo che si respira non solo nella prefettura francese in questione ma, purtroppo, in tutto il Paese e, a ben vedere, in tutta l’Europa. Un laicismo che, beninteso, nulla ha che vedere con la laicità vera e propria, intesa come capacità di uno Stato di operare senza condizionamenti diretti di una confessione, essendo invece un sentimento di rigetto del religioso: un discorso ben diverso.
Ecco che allora tale episodio costituisce un’ottima occasione per tornare a riflettere sul solco profondo che divide la «sana laicità» – di cui parlò anche papa Benedetto XVI nell’aprile 2017 – da, appunto, quel laicismo che, sottolineò il precedessore di papa Francesco, ne rappresenta invece una «sua degenerazione». Una degenerazione, si badi, pericolosa non soltanto per la religione ma per la stessa Europa. Sempre illuminanti, in tal senso, restano le osservazioni del costituzionalista tedesco Ernst Wolfang Böckenförde, il quale ancora decenni or sono ebbe a rilevare come che lo Stato liberale e secolarizzato si nutra di premesse normative che però esso, da solo, non può garantire.
In altre parole, sono le stesse istituzioni laiche ad avere bisogno della linfa valoriale religiosa, in particolare cristiana, per sopravvivere. Ne consegue dunque come, oltre ad accettargli la fototessera, quel zelante funzionario francese dovrebbe al sacerdote di cui abbiamo raccontato anche tante scuse; perché nel suo vestirsi da prete egli non ha incarnato solo un’identità religiosa specifica ma, anche, costitutiva della cultura occidentale e naturalmente francese.
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