«Due cose al mondo non ti abbandonano mai, l’occhio di Dio che sempre ti vede e il cuore della mamma che sempre ti segue». Se queste parole di Madre Teresa a pelle suonano subito vere, come non mai in questi giorni il mondo si è trovato a contemplare il coraggio, la tempra e la passione di tante madri. In Afghanistan, innanzitutto, dove tra “effemminati” eserciti in ritirata e uomini smaniosi di fuggire in ogni mezzo, gli unici eroi sono le mamme.
Calpestata dalla folla a due anni.
Come quella che ha visto la sua bambina di due anni calpestata a morte da un frenetico sciamare di persone in fuga. «Il mio cuore sanguina di dolore», ha detto questa giovane madre arrivata all’aeroporto in cerca di un volo che la portasse via da quell’inferno. É stato un attimo: ha perso la bambina di due anni che aveva in braccio, e la folla l’ha calpestata. Facendosi spazio con tutte le forze questa mamma ha ritrovato la sua bambina, ormai senza vita. «Era come annegare mentre cerchi di tenere il tuo bambino fuori dall’acqua. Ho provato puro terrore. Non sono riuscita a salvarla», ha raccontato al New York Times.
Batuffoli oltre il filo spinato
Ci può essere un eroismo ancora maggiore che sopravvivere ad una scena simile? Filmati strazianti hanno mostrato disperate mamme afghane che pur di togliere i propri bambini dalle grinfie dei talebani, li hanno lanciati sopra il filo spinato perché arrivassero nelle mani dei soldati britannici. Non era importante che anche le madri si salvassero, l’essenziale era che i figli trovassero pace, lontano da lì. Queste le parole di un ufficiale paracadutista all’Independent: «Le madri erano disperate, venivano picchiate dai talebani. Continuavano a gridarci: “Salva il mio bambino!”, lanciandoceli addosso. Alcuni sono caduti sul filo spinato. Quello che è successo è stato terribile, al termine della notte non c’era un uomo tra noi che non avesse pianto». Immagini come queste – destinate di certo ad entrare nei libri di storia – dicono una cosa precisa: il giudizio su quello che sarà il regime talebano lo hanno già ampiamente dato le donne di Kabul (mentre gli ingenui appelli al «dialogo serrato» sono stati smentiti in queste ore dal blocco della fuga dei cittadini afghani e dalle inaudite violenze sui bambini). Il giudizio sulla nuova tirannia messa a punto «da chi mitraglia e lapida chi non si piega – scrive Renato Farina su Libero – è come il giudizio di Re Salomone su chi fosse la vera madre di quel bambino biblico. Portatemi via mio figlio, ma che viva, non è una mia proprietà quella creatura, neppure il mio abbraccio può bastare a difenderlo dai lupi».
Al Ghetto di Roma
Cambiano gli scenari, ma in ogni inferno della storia c’è stata una mamma che ha salvato il proprio bambino. Come nel 1943, durante il rastrellamento della Gestapo nel Ghetto di Roma, una retata di quasi 1300 persone molte delle quali poi deportate direttamente ad Auschwitz. Lo scorso ottobre l’89enne Emanuele Di Porto ha raccontato l’ennesimo atto di eroismo di una madre, davanti a 2mila studenti collegati via Facebook. Il suo toccante racconto inizia con questo prologo: «Mio padre si alzava alle tre di notte, lavorava alla stazione Termini e all’alba arrivavano le tradotte delle truppe tedesche, lui le aspettava sulla banchina e vendeva souvenir. Quando cominciò il rastrellamento era già al lavoro». Ecco però entrare in scena la vera protagonista: «Mia madre invece sentì dei rumori in strada, si affacciò e vide che i tedeschi stavano radunando in piazza tante persone ma pensò che portassero via soltanto gli uomini, così si vestì di gran corsa e uscì per andare ad avvertire mio padre di non tornare al Ghetto. Mi disse di restare in casa, tranquillo, che sarebbe tornata presto ma dopo un po’ non volevo più aspettare e scesi anche io». Gli occhi ora sono solo quelli di un bambino impaurito dalla guerra: «La vidi sopra un camion, presa dai tedeschi, la chiamai, lei mi gridò di andar via, urlava, urlava. Un soldato mi prese al volo e mi buttò come un pacco dentro lo stesso camion… dopo poco mia madre mi abbracciò e mi diede una forte spinta… mi fece cadere giù dal convoglio più o meno in piazza di Monte Savello, sul lungotevere». Solo per amore una madre può lanciare il proprio figlio oltre un muro di filo spinato, oppure da un camion in corsa; soltanto per amore – lo spiega benissimo don Luigi Maria Epicoco su L’Osservatore Romano – Iochebed, madre di Mosè, affidò il suo bambino alle acque del Nilo. Così Emanuele Di Porto conclude il suo racconto, con addosso gli occhi sgranati degli studenti: «Ecco, ricordo la gran botta che mi fece andare giù, poi cominciai a correre, a correre, e poi mi nascosi dentro un tram…lei era bellissima, aveva 37 anni e non l’ho mai più rivista».
Figli salvati e ritrovati (col Dna).
Di madri-coraggio che pur di salvare i figli sono disposti a perderli è piena la storia. Anche recentissima. Un fatto assolutamente clamoroso, traboccante di romanticismo, saggezza e adrenalina, è accaduto quest’estate negli Stati Uniti. Nel 1980, l’adolescente Melanie Pressley decise di non abortire, come invece voleva il suo fidanzato, e di dare il proprio figlio in adozione. Pressley ha raccontato: «Sapevo solo che finanziariamente non potevo farlo. E sapevo anche un’altra cosa: volevo che il mio bambino avesse una madre e un padre». Al momento del parto non le fu nemmeno permesso di abbracciarlo, almeno fino a che un’infermiera non cedette: «In quel momento, mentre lo tenevo in braccio, mia sorella ha scattato una foto, l’unica foto che in 33 anni ho avuto di lui», ha ricordato Pressley, nel frattempo divenuta moglie e madre di tre figli. Alla morte della madre, alla quale avrebbe da sempre desiderato mostrare il suo primo figlio, il desiderio si trasforma in fermissima decisione: volerlo a tutti i costi ritrovare. Ma come? I sogni di una madre non possono non diventare realtà, per cui succede che lo scorso maggio, per il suo compleanno, una delle sue figlie regala a Melanie Pressley un kit di test genetici da fare a domicilio. Nel frattempo, a più di 300 miglia di distanza, succedeva che suo figlio, Greg Vossler, desideroso di conoscere la sua storia genetica, d’accordo coi suoi genitori adottivi faceva esattamente la stessa cosa. «Ho inviato un messaggio all’istante, e il mio primo messaggio è stato: “Penso che siamo imparentati”. E il messaggio seguente: “Credo di essere la tua madre biologica”. E da lì è semplicemente esploso tutto», ha raccontato mamma Pressley.
« Come sigillo sul tuo cuore»
«Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore». Solo la Scrittura arriva a dare le parole al grande mistero dell’amore. Quasi a descrivere il cuore di quelle “madri che salveranno il mondo”, nella Deus caritas est Benedetto XVI – universalizzando l’amore (sponsale) del Cantico dei Cantici – scrive che l’amore vero «non cerca più se stesso [..], cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca».
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