Nel dibattito attorno alla lettera apostolica, sotto forma di Motu proprio, Traditionis custodes di papa Francesco, che si dipana oramai da tre settimane, si è inserita un’altra voce, quella del vescovo di Springfield (Illinois) Thomas Paprocki. Una voce che non è solamente quella di un pastore che ha a cuore il popolo di Dio, ma che è anche quella di un avvocato di diritto canonico molto preparato.
LA VISIONE DI PAPROCKI
A livello mediatico, Paprocki aveva attirato l’attenzione su di sé quando, in seguito alla pubblicazione della Traditionis custodes, aveva con solerzia emesso due dispense per due chiese della sua diocesi, consentendo così che potessero continuare a celebrare la cosiddetta “Messa antica”. Un gesto che, in prima battuta, potrebbe essere interpretato come una sorta di opposizione diretta alle direttive del Pontefice, ma che in realtà ha tutt’altro colore. «La sua [di papa Francesco, ndR] spinta principale», ha affermato infatti il prelato al National Catholic Register spiegando le motivazioni che lo hanno animato, «è quella di affidare ai vescovi la responsabilità di queste questioni, in contrasto con affermato da papa Benedetto XVI, che, nel suo motu proprio Summorum Pontificum, ha usato la sua autorità papale per dare a tutti i sacerdoti la facoltà di celebrare la forma straordinaria. Papa Francesco sta sostanzialmente dicendo che il vescovo ha la supervisione liturgica nella sua diocesi. […] Ha chiesto ai vescovi di fare il punto sulla situazione e, laddove la forma straordinaria risponde a un’esigenza pastorale, di conservarla».
Una considerazione, questa, cui se ne aggiunge un’altra, che ha il merito di uscire dai binari del “già detto” rispetto alla Traditionis custodes: per Paprocki questa mossa di papa Francesco non va infatti interpretata come un “attacco” alla forma straordinaria del rito romano. Leggendo il testo del motu proprio e rimanendo, da buon avvocato, fedele a quanto vi è scritto, il prelato arriva infatti a muovere le seguenti considerazioni: «Alcuni pensano che la tradizionale Messa in latino, il Messale del 1962, sia stata soppressa, ma Traditionis Custodes non lo dice». E questo alla luce del fatto che «il Santo Padre non chiede la soppressione del Messale del 1962. Se lo fosse stato, avrebbe potuto dire: “Non permetto a nessuno di usare il Messale del 1962″».
PUNTARE ALL’UNITÀ, NON ALL’UNIFORMITÀ
Allargando quindi l’analisi del discorso, Paprocki non può non riconoscere il fatto che la “Messa antica”, che ha conosciuto un fiorente seguito in America, è fonte di attrattiva soprattutto per le giovani generazioni: a suo avviso c’è una fame di «divino» che la musica contemporanea e le modalità comunicative che sono state adottate durante la liturgia nel post Concilio Vaticano II non sono state in grado di saziare: anzi, gli abusi che spesso si vedono nella forma ordinaria non hanno fatto altro che accentuare la visibilità della questione. E questo anche alla luce della constatazione, anch’essa non comune, «che quando alcune persone mettono in dubbio il successo del Concilio Vaticano II, non ne mettono necessariamente in discussione la validità. Con ciò intendo dire che è possibile affermare che il Concilio, almeno fino ad oggi, non è riuscito a raggiungere alcuni dei suoi obiettivi. È diverso dal dire che non è valido».
Nel concludere, secondo il prelato, la vera sfida, al giorno d’oggi, non è tanto favorire una modalità di celebrazione sull’altra in favore di un ideale di unità, che va a tingersi delle note dell’uniformità. Il punto vero, fondamentale, è quello di portare avanti una fede comune nell’unità con Nostro Signore.
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