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Per alcune olimpioniche l’industria sportiva offre solo una via d’uscita: l’aborto
NEWS 27 Luglio 2021    di Redazione

Per alcune olimpioniche l’industria sportiva offre solo una via d’uscita: l’aborto

Nel bel mezzo delle Olimpiadi di Tokyo, guadagnare un posto sul podio rappresenta la ricompensa per gli atleti dopo anni di sacrifici e allenamenti. A quattro giorni dal loro inizio sono state distribuite decine di medaglie, tra cui una d’argento per la nuotatrice cattolica statunitense Katie Ledecky. Tuttavia, la soddisfazione e il trionfo mostrati dai sorrisi degli atleti vincitori nascondono in alcuni altri casi una triste realtà: l’aborto è, in molte occasioni, il prezzo definitivo da pagare per la vittoria. Una realtà che, come ha raccontato Margaret Brady su Verily Magazine, è più che radicata nella categoria femminile dello sport d’élite.

Sanya Richard Ross, dalla cima del mondo al vuoto e alla disperazione
Quando ha raccontato per la prima volta la sua testimonianza, l’olimpionica Sanya Richards-Ross ha detto che nel 2008, «ero letteralmente in cima al mondo. Ero la promessa d’America. Avevo più di otto sponsor tra i principali marchi nazionali, l’amore della mia vita al mio fianco e nei 400 metri ero imbattuta. Ero la grande favorita per vincere l’oro alle Olimpiadi». Tuttavia, il giorno prima della marcia per i Giochi di Pechino, l’atleta sapeva che tutto stava andando a rotoli mentre si dirigeva ad una clinica per aborti, l’ultimo posto in cui avrebbe voluto essere in un momento del genere. «Sapevo di essere a un bivio. Tutto quello che ho sempre voluto sembrava essere alla mia portata. Il culmine di una vita di lavoro era davanti a me. All’epoca, sembrava che non ci fosse alcuna scelta… Tutta la sofferenza che ha accompagnato quel momento mi aveva lasciato così insensibile che ricordo a malapena gli strumenti freddi che mi hanno sfiorato la pelle», racconta nel suo libro, Chasing Grace. Durante i Giochi, nei secondi prima di raggiungere il traguardo, l’atleta si sentiva vuota e disperata, e i suoi sentimenti di vergogna e di colpa le hanno impedito di raggiungere l’oro olimpico per un più che amaro terzo posto. «Ho preso una decisione che mi ha distrutto», ha confessato.

Brianna McNeal, dall’aborto al “glorificare Dio” con il suo talento
Verily include anche il caso di Brianna McNeal, vincitrice dell’oro olimpico ai Giochi di Rio 2016, accusata di aver falsificato una nota medica dopo aver saltato un test antidoping nel gennaio 2020. L’atleta, incinta come Richards Ross, si è trovata tra l’incudine e il martello sotto la pressione delle imminenti Olimpiadi e ha deciso di abortire prima di uno dei test antidoping. Quando il rappresentante anti-doping si è presentato a casa sua, McNeal era traumatizzata, nel suo letto, con una sindrome acuta post-aborto e non ha sentito la chiamata. Volendo dimostrare di aver saltato il controllo per giusti motivi, McNeal ha presentato come prova la nota medica ricevuta dopo il suo aborto, ma vedendo che la clinica aveva sbagliato a inserire la data, l’ha corretta da sola. Questo è stato sufficiente per l’Unità di integrità atletica per sanzionarla e proibirle per 5 anni le competizioni. A causa della sua fede cristiana, è stata aspramente criticata per aver cercato assistenza spirituale per superare il trauma piuttosto che le cure di uno psichiatra. Ora afferma di cercare Dio ogni giorno e pretende di «glorificare Dio per il talento con cui mi ha benedetto».

“Tutto quello che serve” per mantenere le prestazioni
La Richards-Ross afferma che non conosce «un altro atleta [donna] che non abbia abortito, e questo è triste». Per lei la pratica diffusa dell’aborto nel mondo sportivo femminile è dovuta alla disinformazione che circola già dalle università sull’impossibilità di gravidanza per le atlete che hanno perso il ciclo mestruale a causa dell’esercizio estremo. Ma anche, a una cultura dello sport che incoraggia a «fare tutto il necessario per esibirsi ai massimi livelli».

Un problema che inizia nelle università
Tuttavia, gli ostacoli allo sviluppo della cultura della vita nello sport iniziano nelle università stesse. Il sistema di borse di studio per i giovani atleti è fondamentale per poter far decollare la propria carriera. Come ammettono centinaia di atlete e dirigenti universitari, gli accordi di borsa di studio non lasciano spazio a dubbi sulla maternità. Quello della Clemson University avverte le atlete che «la gravidanza che si traduce nell’incapacità di competere e di contribuire positivamente al successo comporterà la modifica della borsa di studio», ed è accertato, dal canale televisivo americano ESPN, che almeno sette atlete d’élite sono state costrette ad abortire per mantenere la borsa di studio. Un caso simile è quello di Cassandra Harding. All’Università di Memphis, la gravidanza delle atlete che accedono alla borsa di studio implica «l’immediato licenziamento e il mancato rinnovo della borsa di studio». Cassandra, che non ha potuto abortire per aver scoperto troppo tardi la sua gravidanza è stata immediatamente espulsa.

Non tutti subiscono la pressione dell’aborto
Nonostante l’aborto sia diffuso nell’élite sportiva, non tutte le atlete si sottomettono alla cultura dell’aborto e, in molte occasioni, chi resiste trova nella fede una motivazione fondamentale. Questo è il caso dell’olimpionica Allyson Felix (foto in alto). L’atleta, con profonde convinzioni cristiane, afferma che il suo obiettivo è «essere ogni giorno più simile a Cristo» e che la fede, che orienta la sua vita, è il motivo per cui corre. «Sento di essere stata benedetta con questo dono», ha detto al Los Angeles Times. Per questo Allyson è un esempio per tutte quelle atlete che, in gravidanza, non vogliono sottostare ai contratti e alle clausole delle grandi società sportive. Nel suo caso, Felix è andata contro la Nike. I suoi sei ori olimpici e altri 14 ai campionati del mondo non sono stati sufficienti per soddisfare il suo sponsor principale quando hanno saputo che Allyson era incinta. Nonostante abbia ridotto i benefici finanziari del 70% e l’abbia sottoposta a forti pressioni per abortire, l’atleta ha deciso di combattere. È riuscita a far cambiare all’azienda le sue clausole anti-maternità nei contratti e ha fondato Saysh, un marchio sportivo volto ad aiutare le atlete che vogliono bilanciare la loro dedizione sportiva con la maternità. (Fonte)


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